Francesca Nodari
Osare il proprio essere corporei
«L'uomo di carne di sangue, quell'esserci corporeo che dobbiamo osare essere, non può non essere consapevole delle propria bisognosità. Noi inequivocabilmente dipendiamo da un fuori, dagli elementi che ci circondano, dalle cose materiali e dalle cose che non sono in nostro potere».
Siamo ancora figli del dualismo cartesiano res cogitans/res extensa, o forse occorre intendersi meglio sulle parole enigmatiche di Zarathustra che concluse: «Io sono tutto corpo e nulla fuori di questo»? il nostro «io sono» corporeo si coglie nell’aver bisogno dell’altro o, il che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo che eviene – singolare peripezia dell’essere – tra l’altro e me cogliendo nell’incarnazione del sé posto all’accusativo leevinasiano l’unità psicofisica (Leib) di un soggetto di carne e di sangue che nella sua passività – che è insieme bisognosità, patire, pazienza – si fa ostaggio-con-il-proprio-corpo-per-l’altro(Leib-Bürge). Ciò che intendiamo mostrare in questa nostra esposizione è proprio il fatto che il passaggio dell’umano, nella società dell’infocrazia e della tecnocrazia, alla sterilità della dimensione propria del phono sapiens di cui parla Byung-Chul Han, ci rende pericolosamente dimentichi della nostra dimensione costitutiva: non siamo tutto e non possediamo un tempo infinito. In questo senso, interrogarsi sull’intendimento ultimo della parole di Zarathustra significa prendere consapevolezza del fatto che il soggetto sia un homo indigens, del tutto dipendente da un fuori: l’acqua per dissetarsi, l’aria per respirare, il cibo per nutrirsi, soprattutto, l’Altro che non potrò mai ricondurre a me e che contesta levinasianamente «il mio potere di potere». Nell’accadimento del nostro rapporto con l’altro uomo – che è come noi tutto corpo e perciò se stesso –, esperiamo nel modo più chiaro che noi ci siamo nella misura in cui abbiamo bisogno dell’altro, dunque ci siamo soltanto nella misura in cui oltrepassiamo noi stessi acconsentendo ad una mancanza, ad un limite che non possiamo rimuovere, se vogliamo essere veramente uomini in carne e ossa. Di qui, nell’urgenza di un presente che ha bisogno di (ri)mettere al centro l’umanesimo dell’altro uomo, si comprende che portare a compimento il senso ultimo dell’osare il nostro esserci corporeo significa ‘praticare la commozione delle viscere’, «abbrividire per opera del bene» facendosi, davvero, ostaggio-con-il-proprio-corpo-per-l’altro che è, in ultima analisi, pensare umanamente i nostri rapporti interumani. È divenire fecondi. Ne La Lettera agli Ebrei non si legge: «Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato» (Eb 10, 5-7)?
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