Festival Filosofi lungo l'Oglio
2025 - ESISTERE XX EDIZIONE
Nel linguaggio comune spesso sì: esistere sta per essere, stare al mondo, essere vivi, presenti. Nel linguaggio filosofico i due infiniti dovrebbero esibire una forte dicotomia, ma anche in questo caso i significati spesso si sovrappongono: per esempio in una delle più celebri asserzioni della letteratura filosofica universale: cogito ergo sum. Penso dunque sono, penso dunque esisto. Esisto in quanto penso, sono in quanto pensante. Sono nella realtà, sono cosa, sono cosa che pensa e esiste. Proprio questo è il senso specifico, filosofico, di esistere: essere nella realtà, esserci realmente. Dal latino existĕre, composto da ex e sistĕre, stare, fermarsi.
Le cose dunque non sono così semplici: lo si può vedere nella filosofia medievale e nei «dissapori» tra Aristotele e alcuni suoi followers medievali. Per comprendere la questione bisogna rifarsi al rapporto tra l’essere individualmente e l’esistere realmente, insomma tra essenza e esistenza, e la loro relazione a contingenza e necessità. Le proprietà contingenti sono accidenti mentre le essenze sono necessarie, esistono necessariamente. Ciò che è esiste, era la posizione di Aristotele. Sarà Tommaso d’Aquino a distinguere l’essenza di una cosa dalla sua esistenza. Questo rimanda, all’indietro e in avanti nel tempo, alla celebre prova ontologica dell’esistenza di Dio, enunciata per la prima volta da Anselmo d’Aosta e in seguito ripresa o criticata. Essa afferma che il concetto di Dio è quello di un essere completo di tutte le perfezioni e insieme di un essere di cui non se ne può concepire un altro più grande. Poichè l’esistenza è una perfezione e un essere che esiste è superiore a un essere che non esiste, Dio per definizione esiste necessariamente.
Per Tommaso, la distinzione tra essenza e esistenza riguarda ancora Dio, nel quale l’esistenza consegue al pensiero dell’essenza. Negli esseri particolari invece l’essenza espressa dalla loro definizione, per esempio l’essere un unicorno un cavallo con un corno sulla fronte può essere pensata senza che l’unicorno necessariamente esista.
Nella filosofia contemporanea l’esistere assume forme e significati lontani da necessità e contingenza. Per esempio nel movimento filosofico esistenzialista, che concepisce la filosofia non come disciplina contemplativa e disinteressata ma come impegno del singolo e come ricerca del significato e della possibilità dell’esistere in quanto esseri umani. Come è noto, l’esistenzialismo è un movimento filosofico e culturale nato tra le due guerre mondiali, che pone in primo piano l’esistenza, intesa come il modo di essere tipico e problematico dell’uomo nella sua singolarità vissuta. All’ottimismo filosofico, storico e scientifico dell’Ottocento, nei modi diversi del socialismo, del positivismo e dell’idealismo, era subentrato un forte senso di dubbio e di incertezza ed era caduta la fiducia nella possibilità della ragione di comprendere e dominare la realtà. Il termine esistenzialismo si diffuse a partire dagli anni ’30 e si impose con L’esistenzialismo è un umanismo (1946) di J. P. Sartre, cui seguirà di lì a poco la Lettera sull’umanismo di Heidegger in risposta a J. Beaufret che gli chiedeva come fosse possibile «ridare un senso alla parola ‘umanismo’».
Ora in questo nostro preciso momento storico dove prevalgono le passioni tristi, dove il capitalismo finanziario ci illude di soddisfare desideri, che non sono altro che bisogni, dove le minacce del cambiamento climatico, il moltiplicarsi dei focolai di guerra nel mondo – al cui centro stanno il conflitto ucraino-russo e quello mediorientale – dove lo strascico e i postumi della pandemia sono sotto gli occhi di tutti, dove la paura cresce e il futuro sembra colorarsi di tinte fosche, non possiamo forse affermare che ci troviamo nel bel mezzo di un salto d’epoca in cui oggi, come allora, emerge la fatica di comprendere la realtà, di assumere una posizione ben precisa che il nostro stare al mondo richiede ? L’inverno demografico, il crollo del desiderio, la frantumazione del simbolico, la dittatura della prestazione e del consumismo, la stessa andatura sonnambolica che, secondo il 57º Rapporto del Censis caratterizza, ad esempio, la società italiana – «cieca dinnanzi ai presagi, intrappolata nel mercato dell’emotività, non più alla ricerca dell’agiatezza, ma di uno spicchio di benessere quotidiano» – non sono degli indicatori che richiedono approfondimenti, riflessioni, analisi?
Che cosa resta, oggi, della nostra esistenza? Quale valore assumono la coppia di termini contrapposti da Heidegger in Essere e Tempo (1927): esistenziale-esistentivo, ove il primo termine indica l’esistenza nella sua immediatezza ovvero ciò che è legato all’esistente comune ad ogni uomo, mentre il secondo designa le determinazioni ontologiche (per es. il sentirsi situati, la comprensione, il discorso) originarie e costitutive dell’esistenza dell’uomo? Se l’informatizzazione trasforma le cose in infomi, ne viene – come ha intuito Byung-Chul Han – che l’essere-nel-mondo non si compie più nella forma di un «commercio manipolante» dove le cose hanno il loro in-vista-di-cui finale nell’esserci. L’essere umano non è più Dasein, ma è un Inforg. La nuova massima è: «L’essere è informazione». Viviamo in un’era defatticizzata e post-fattuale ove gli infomi ci assediano. Fintamente ci assecondano e coltivando il nostro desiderio ci tendono la trappola illudendoci di soddisfare i nostri bisogni.
Se in passato valeva la massima di Anassagora secondo la quale: «l’uomo è intelligente perché ha le mani», oggi vale la regola del phono sapiens dove il touch-screen elimina la negatività dell’indisponibile, generalizza l’impulso aptico riducendolo all’indice che impazza sul cellulare. Rendendo consumabile ogni cosa. Trasformando tutto ciò che tocca in merce. Degradando della propria alterità persino l’Altro. Di qui i grandi interrogativi sul passaggio dal paradigma tecnologico al paradigma tecnocratico, sul rapporto tra la propria esistenza e quella delle macchine, sul rovesciamento della dialettica: dominio-sottomissione. Di qui ancora le conseguenze che l’abitare nella dimensione virtuale comporta: dall’hikikomori al blancheur di cui parla Le Breton. Per non dire della percezione della nostra corporeità in quanto esseri finiti di carne e di sangue. Dall’installazione di microchip sottocutanei agli sviluppi dei robot e degli apparecchi dotati di Intelligenza Artificiale fino al trasferimento extracorporeo di facoltà umane come l’intelligenza e la volontà e il loro conseguente insediamento in dispositivi autonomi. Non siamo dinnanzi ad un pensiero totalmente disincarnato tale per cui la razionalità dell’uomo «separandosi dalla coscienza – afferma Remo Bodei – e applicandosi alla macchine grazie all’Intelligenza Artificiale (IA) si congeda dall’illusione tolemaica di avere il monopolio della conoscenza»? «Per parafrasare il Vangelo di Giovanni, il Verbo si è fatto macchina, lo spirito soffia anche nell’inorganico e la ragione e il linguaggio, oggettivati in forma di algoritmo, abitano in corpi non umani, creando una ‘umanità aumentata’. Il pensiero umano, disincarnandosi, è emigrato nelle macchine e si annida in esso».
Ma allora a che punto è giunta la nostra umanità? A quali rischi e a quali slanci è destinata? Cosa significa, oggi, esistere? Non un semplice esserci e stare, ma uno stare e un esserci coscienti, consapevoli, impegnati. Esistere – nonostante e, anzi, a maggior ragione con l’avvento dell’IA – equivarrà a pensare, riflettere, agire, non a lasciarsi vivere e nemmeno a «funzionare», come si esprime Miguel Benesayag. Così, mentre gli imperativi tecnologici cui siamo sottomessi ci impongono di funzionare nel senso di essere funzionali alla società dei consumi ovvero di consumare, noi dobbiamo sforzarci di vivere, fare esperienze, riflettere, pensare, cogitare, ergo esistere. Desiderare, amare, decidere- ad-iniziare-qualcosa-con-se-stessi contrapponendo alla sincronia di un eterno presente, la diacronia che accade ogniqualvolta dinnanzi a me c’è l’Altro irraggiungibile e irriducibile. L’Altro che è il povero, la vedova, l’Altro che è il tempo dopo di me o la generazione. L’Altro che rappresenta quella parte di umanità generica che abita in ciascuno di noi e che chiede, a gran voce, di essere riconosciuta, ascoltata, affrancata dalla violenza, dalle guerre, dalla fame. Allora esistere diventa un compito irrinunciabile, senza dubbio faticoso: una partecipazione, nostro malgrado – qualcuno ha forse scelto di venire al mondo?–, al banchetto della vita. Che è dolore, gioia, scoramento, ma anche speranza, temperanza, gratitudine, attimi di felicità. Come scrive Benasayag «Noi non siamo affatto riducibili a dati preliminari che giustificherebbero la nostra posizione, poiché ogni situazione della nostra esistenza implica una trasformazione del dato, un nuovo lancio di dadi: ogni situazione ci ristruttura, ci riarticola con altri modi di essere, altre sfide, altri ruoli». Resta attuale l’imperativo dell’oracolo delfico: «Conosci te stesso». Per farlo occorre vivere, nella consapevolezza che la risposta alla grandi domande: «Chi sono?», «da dove vengo»»?, «cosa c’è di là?» ha strettamente che fare con il nostro esistere. Qui e ora. A ciascuno il compito di giocare la sua parte, nella convinzione che la soddisfazione più grande è quella di alzarsi sazi da quel banchetto.
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