Ivano Dionigi
Quali parole per nominare il nostro presente
«Oggi, purtroppo, la parola non gode di buona salute, poiché ridotta a chiacchiera o a slogan e così il patto tra parole e cose viene meno. La parola seguendo una sua sciagurata autonomia perde di valore inaridendo anche il pensiero».
Viviamo in un’epoca di paradossi e ossimori: a fronte della globalizzazione e del suo profeta Internet reagiamo con un apparato di muri fisici e mentali; a fronte del web planetario e del maximum dei mezzi di comunicazione sperimentiamo il minimum della comprensione; a fronte della complessità e moltiplicazione dei problemi economici, sociali e morali operiamo una riduzione e un impoverimento del linguaggio.
La parola non tiene più dietro alla cosa, divorzia da essa e persegue una sciagurata autonomia. Degradata a vocabolo e identificata col medium comunicativo, la parola rischia di perdere il proprio destino: generare, custodire e trasmettere il pensiero.
La parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque ci chiede di abbassare il volume, di imboccare la strada del rigore, di ricongiungersi alla cosa. Agostino direbbe che noi «blateriamo, ma siamo muti».
Costruttori di una quotidiana Babele linguistica, avvertiamo il bisogno di un’ecologia linguistica che restituisca alla parola il potere di svelare e non sequestrare la realtà. Un compito difficile e, a tratti, drammatico, perché la cosa è sempre più sfuggente, rarefatta, smaterializzata: non cosa.
Oggi noi siamo chiamati a un duplice compito: richiamare dall’esilio le parole dei padri e creare parole nuove per nominare il nostro tempo: scontando il fallimento di ogni parola che muore, testimoniando il successo di ogni parola che vive.
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