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Il futuro di Dio è il dolore condiviso nel cuore della Shoah
Avanzano con il passo ottuagenario di chi viene da Asti e torna ad Asti nella notte. Paolo e Anna ricevono il braccio rispettivamente della dott. Francesca Nodari, direttrice dei Filosofi lungo l’Oglio in circuito nella suggestione freschina di San Fedele a Palazzolo, e di Eugenio Massetti, editore con il piglio, l’altra sera, di paggio-editore. San Fedele è vissuta da oltre cento persone, salutata per tutti e principalmente per gli ospiti, da una cortesia scelta dell’assessore Gianmarco Cossandi, «ci facciamo piccoli di fronte al teologo, biblista, scrittore e docente... ci sediamo all’ascolto ».
Francesca, il Capo di un’intuizione invernale sul «Fare Memoria. Perché la Shoah?», invita a segnarsi l’« imprevedibilità» del prof.De Benedetti, quello spirito di aggiudicarsi l’ultima riflessione in diretta, lì, in quell’istante,dopo notti insonni intorno alla questione da trattare, «Il futuro di Dio» nell’accezione passiva ed attiva, ieri e domani, cielo e terra, persona e Dio con l’intermediazione sanguinosa del dolore, dalla Crocifissione di Cristo alla Crocifissione della Shoah. Il professore è imprevedibile per l’unicità di un procedimento ispirato, per la conoscenza di ogni interpretazione rabbinica, per possedere in dote il vento della grazia nel luogoin cui gliaccade di pensare.E di intuire l’ultimo suggerimento proveniente dal sapere e dalla fede. Insieme,alleate peristanti di rara grazia.
«L’anno scorso mi avete assegnato - ricorda - il tema sulla "Memoria di Dio". Quest’anno avete voluto rendere insonni, io e mia sorella, per questo titolo, "Il futuro di Dio". Allora cercherò di accedere subito a un dato di antichità, di "tradizione muta" riguardo al futuro di Dio, allorché nei nostri catechismi si affermava: "Dio è l’essere perfettissimo, Creatore e Signore della Terra". Ecco, a fronte di una dichiarazione così,perdiamo il sentiero del futuro di Dio». Lo amiamo immobilmente, fermi e spaventati. Invece, pensa il prof. De Benedetti, ricordando il dono di una visione di sé allo specchio per il libro elaborato intorno alla sua operadaparte di Ilario Bertoletti, ringraziato lì, presente nel mezzo di San Fedele, il futuro di Dio è contemporaneamente il suo passato e viceversa. Il tempo non entra fisicamente nel conteggio di Dio, l’unicum di ieri e domani cammina e si identifica nell’istantaneità in cui viene evocato.
Come se tutti noi, in San Fedele, fossimo divisi e indivisi a rappresentare simultaneamente- simul stabunt etsimul cadent - il passato e il futuro. Al di là della morte, così che essa finisca per essere un confine non assoluto rispetto al futuro dolore di Dio e della persona. Dio piange sulla rovina del suo popolo e il suo popolo piange sulla rovina crocifissa del Figlio. Di ogni figlio. Forse, l’usufrutto del dolore diviene un pianto doppio, ricorda il prof. De Benedetti, il pianto umanissimo di Dioper l’uomo e il pianto deificato dell’uomo nei confronti del Signore Gesù Cristo. Dice il rabbino riguardo al pianto di Dio: «Se tu vuoi che io non pianga, io non piangerò, ma piangerò in luoghi segreti». In questa contrazione tra la pietà della persona e il richiamo alla preghiera del pianto da parte di Dio avvampa un bagliore di umanesimo senza datazione. Una sorta di umanesimo biblico. Come se uno strano Marita in risalisse, un giorno, tra passato e futuro - poiché esiste anche un futuro; che è ritorno a un passato onorato di spiritualità e di umanità. Dunque - riflette il prof. De Benedetti - Dio è eterno, ma vive nella temporalità. C’è un’incarnazione del divino nel temporale. Del resto Gesù viene in terra con un futuro da realizzare. Il futuro di Dio, in qualche modo, sostiene il biblista, è una grazia concessa a Dio.
«Dio crea - spinge al culmine Paolo De Benedetti - e nell’atto di creare, non prima, comprende quello che ha fatto e lo definisce. Il futuro di Dio è nascosto a Dio fino a quando non diventa realtà». Ecco, siamo alla stazione della magnifica «imprevedibilità debenedettiana », annunciata dall’altrettanto «magnifica mobilità intellettuale nodariana». Si è sospesi ad ammirare,di nuovo, il pensiero nel tempio. Infine, nel futuro di Dio c’è il bene e il male e l’uomo deve sapere scegliere il futuro giusto per Dio e per sé. La Shoah fu la scelta del male e costrinse Dio al pianto nascosto. Pianto senza fine se non si incenerisce l’ultima cellula maligna della Shoah.
Di fronte alla Shoah l’esistenza dei giusti consente la speranza
Il teologo americano Arthur Cohen chiamò i campi di sterminio nazisti «il Tremendum»: monumenti, scrisse,«di un’inversione senza senso della vita verso un’orgiastica celebrazione della morte». Dopo una simile tragedia, perché si dovrebbe tornare a coltivare la speranza? Massimo Giuliani, docente di Studi ebraici e di Ermeneutica filosofica all’Università di Trento (ha da poco tradotto e curato per Morcelliana il libro di Cohen sull’olocausto), ha cercato di proporre una risposta l’altra sera, nel Teatro comunale di Erbusco, durante il quarto incontro di «Fare memoria», la rassegna a cura di Francesca Nodari dedicata al ricordo della Shoah.
Giuliani ha conversato intorno al suo testo, già leggibile nel nuovo instant book di «Fare memoria» edito da Massetti Rodella, ed ha esordito ricordando le parole pronunciate nel 1990 dal cardinale Carlo Maria Martini: la Shoah è «un crimine imperdonabile che graverà sempre sulla coscienza europea». Auschwitz, osserva Giuliani, «sembra mettere in dubbio il processo che a partire da Kant giunge fino a metà del ’900: quella modernità cheha cambiato il volto dell’Europa. L’olocausto ha segnato la fine dell’illuminismo, ma per molti studiosi è stato anche "il" suo fine: alcune sue premesse erano già presenti in certi processi della modernità».
È la «dialettica dell’illuminismo» teorizzata da Adorno e Horkheimer, secondo i quali «i germi barbarici, ad esempio il pensiero razzista, sono già dentro la modernità ». Agli antipodi delle speranze illuministe, Auschwitz «sconvolge le nostre categorie consolidate e il tentativo di giustificare l’uomo di fronte al male nel mondo».E produce una «bancarotta del pensiero». Pure, esiste un’altra faccia della Shoah: quella dei «giusti» che in molti modi si opposero alla dittatura, mettendo in gioco la propria vita. Come ha osservato il filosofo Emil Fackenheim, il fatto che anche di fronte alla «logica irresistibile» del nazismo vi fu qualcuno che seppe resistere mostra a noi la «ragione ultima e più profonda per sperare». Speranza e disperazione convivono nell’uomo contemporaneo, in un drammatico rapporto dialettico.
Scrive Cohen: «La speranza che Dio offre all’uomo e la disperazione che l’uomo restituisce a Dio è la dialettica più feroce che il nostro tempo abbia vissuto». Non dev’essere la morte, però, ad avere l’ultima parola: «Vi è qualcosa di più grande, la dignità umana e la sacralità dell’interiorità che nessuna violenza può sopraffare». Gli ebrei, dice Giuliani citando ancora Fackenheim,«non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume»: se la disperazione vincesse, il mondo sarebbe lasciato in preda alle forze di Auschwitz. Al rabbino Izchaq Nissenbaum del ghetto di Varsavia è attribuita l’espressione teologica «qiddush hachajjim », «santificazione della vita». Indica «il dovere assoluto che un ebreo ha oggi di sopravvivere, contrapposto all’atto del martirio». Nobile atto di fede, quest’ultimo, ma anch’esso «assassinato ad Auschwitz,quando i nazisti hanno privato le vittime della possibilità dell’assenso alla loro stessa morte».
Dopo la Shoah, la speranza è dunque «un debito morale che abbiamo verso le vittime, soprattutto nella misura in cui si tratta di una speranza contro Auschwitz, custodendo la memoria storica di quel che è stato e vigilando in modo critico sul presente».Perché essere giusti è sempre possibile: «Basta tenere aperti gli occhi e vincere il virus dell’indifferenza e del pregiudizio».
Simona Forti: Auschwitz, un male assoluto verso il nulla
Male assoluto, indicibile, diabolico, estremo. Sono solo alcune delle louzioni con cui la filosofia del’ 900 ha descritto gli orrori di Auschwitz. Quella dimensione «iperbolica del male», che, in un tragico oltrepassamento dei valori e dei limiti, ha fatto «sprofondare la civilissima Europa negli abissi nichilistici». All’interpretazione ha contribuito «non solo l’inaudita atrocità dei fatti storici», ma anche il cosiddetto «paradigma Dostoevskij». La lente fornita dall’ equazione «male uguale nichilismo», da un punto di vista sia etico che ontologico, rimanda l’osservazione del «piacere assoluto di chi è posseduto dal godimento della distruzione», di un male che non è mai slegato dal potere. Anzi: i demoni dostoevskiani sono accomunati dall’aspirazione a «prendere il posto di Dio e della sua infinita libertà». È così che il male «entra nel mondo», scatena il disordine e diventa fonte di sofferenza.
Eppure la lettura demoniaca dello sterminio nazista non rende del tutto conto dei complessi meccanismi che ne hanno consentito la realizzazione. Primo Levi, l’autore di «Se questo è un uomo» aveva invitato «a complicare la scena», ammettendo che il palcoscenico del male non è quasi mai una «dimensione a due».
La tesi è proposta dalla filosofa Simona Forti, intervenuta l’ altra sera in città, introdotta da Francesca Nodari, su «La questione del male tra trasgressione e obbedienza», per l’ incontro promosso dall’ associazione Filosofi lungo l’Oglio con Casa della Memoria. «Non ho scritto un libro per affermare che non esistono persecutori malvagi e vittime innocenti. Ma se le azioni dei primi hanno così successo è probabile che sia perché a questa istanza di assolutizzazione della morte risponde la richiesta dei molti di assolutizzare la vita» ha detto la studiosa, riferendosi al suo saggio «I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere» (2012). L’ opera traccia una nuova genealogia del nesso tra male e potere, ripensandone fenomenologicamente gli aspetti «microfisici»: non deve essere indagato soltanto nel legame con la morte e il nulla, ma analizzato nel rapporto che intrattiene con l’ostinata passione per la vita, col desiderio di essere riconosciuti. Forti intende superare la «metafisica della malvagità» che ha connotato buona parte dell’ermeneutica novecentesca, quindi la dicotomia sul cui fondo rimane sempre l’immagine della relazione vittima-carnefice.
Ne «I sommersie i salvati» di Levi si trova la più «sobria, molecolare» confutazione di tutte le concezioni demoniache del potere, attraverso la presenza «grigia» di individui che, in nome dell’ottusa obbedienza e del mero conformismo, ma soprattutto spinti dalla volontà di sopravvivere, collaborano al male o assistono da passivi spettatori alla sua esecuzione. Sulla «banalità del male» si era già interrogata a fondo Hannah Arendt, e fu anche molto criticata.
Ora, la «microfisica» indicata da Levi, e sviluppata da Simona Forti, ci offre un’analisi dei rapporti di potere che funziona anche in situazioni meno estreme. Quel «desiderio insopprimibile della libertà» che si concretizza nel bisogno di prestigio, e nella necessità di scaricare su altri il peso dell’ umiliazione e delle offese, «lo ritroviamo in ogni convivenza umana, dal lager ad uno stabilimento industriale».
Quell’antisemitismo millenario travestito e nascosto in tanti luoghi
Ugo Volli, l’altra sera, parlava nella sala del Consiglio comunale di Castrezzato per il ciclo Fare Memoria organizzato dai Filosofi lungo l’Oglio, accompagnato da una stuolo al femminile, la direttrice Francesca Nodari, l’assessore Maria Paola Bergomi,il sindaco Gabriella Lupatini, la consigliera Anna Maria Gandolfi delle Pari Opportunità. Lui apriva la riflessione in Municipio e sotto, nei bar, le televisioni trattavano lo scrutinio delle elezioni politiche in Israele, segnando la vittoria non clamorosa di Netanyahu, l’avanzata del Centro. Nell’accento di nebbia e nel freddo uno sotto zero di Castrezzato si riscopriva il senso della globalizzazione, la coperta della filosofia, il gelo della disoccupazione, la compagnia del Fare Memoria per non dimenticare, il filo da rinforzare tra chi approfondisce il «Mai più. L’antisemitismo dell’Antisemitismo» con il prof. Ugo Volli, docente di semiotica, giornalista e scrittore di critica teatrale e artistica e chi si distrae per superficialità e per preoccupazione ai propri bisogni.
Mazzini, che radicalizzava la sua parte, s’era convinto: con la pancia piena si avvista la rivoluzione risorgimentale.Le parole di Volli e i brusii dei bar, i silenzi pensosi delle ex nebbie, la prossima alba scarsa di uomini sui pulmini esangui verso Milano per costruire altre case scarse, si trasformava in quel «cappuccio universale» in cui ciascuno trova il bollente e l’amaro della vita. Il prof. Volli ha il problema di chi possiede una cultura vasta e si trova ad ogni pausa di fronte a un incrocio invitante: di qua o di là, indietro o avanti, ieri o adesso? Ma intinge subito la diffidenza scientifica in quel «cappuccino universale», in quella globalizzazione relativista in cui si disperdono le identità e le specificità. Quel «cappuccino universale» gli sembra l’ultimo lager liquido per sciogliere l’ebraismo e confonderlo nel tutto del niente. L’antisemitismo, dice, è dentro una strategia di distruzione millenaria. Hitler non era il primo e si deve stare attenti affinchè non sia l’ultimo. I Cristiani non solo di Agostino, i Maomettani da Maometto ad Hamas hanno puntato sulla eliminazione dei «fratelli maggiori». Ecco il senso delle elezioni in Israele che salgono le scale del municipio di Castrezzato,l’omonimia tra Ebraismo, Israele, Shoah.
Il prof. Volli è pronto a inviare agli increduli messaggi filmici in cui i dettati di Hamas, per esempio, stanno oltre l’hitlerismo. Sentite il canto di Hamas nella voce resistente di Volli: «Noi vinceremo perchè noi amiamo la morte quanto voi amatela vita». Il prof. Volli traccia esempi sul «carattere genocida della dirigenza palestinese; alcuni dei loro leaders hanno scritto tesi di dottorato com- pletamente negazioniste sulla Shoah». L’antisemitismo, insomma, avanza in una scansione secolare senza sosta. Quel «Mai più», gridato dalle nazioni dopo la scoperta di Auschwitz rischia perfide soste. Costantemente, spiega il relatore, le motivazioni fondamentali che reggono i moventi dello sterminio si riferiscono all’ostinazione degli ebrei di rimanere ebrei;per i cristia- ni al fatto di non aver riconosciuto Gesù e di averne causato la Crocifissione e per i Musulmani, gli ebrei avrebbero rifiutato di riconoscere la rivelazione dell’arcangelo Gabriele su Maometto. Volli ci porta nella neve del lager estremo, nei giorni in cui il nazismo preferì distruggere per distruggere, scelse l’ultima tortura piuttosto di una propria salvezza.
Li facevano camminare,scarni e senza fiato. Morivano più fragili della neve che cominciava e sfarsi. Di nuovo, come prima a Fossoli, nell’antici- po dell’immane pugnalata alla persona e al popolo, «l’alba ci colse come un tradimento».Parla Primo Levi e chi ama la pietà e la vive anche per somigliare il proprio patire a quello dei maggiori dolori, si sente figlio di una Croce, perfino orgogliosamente diritto e reclamante un’appartenenza alla Shoah con una quota minima di orfanità. Il prof. Volli è ammirato dal policentrismo vivace della cultura bresciana, ammira questi Filosofi Lungo l’Oglio, quasi accampati idealmente con le loro piccole tende vicino a una neve di pianura, in contatto con la neve dei campi di concentramento.
Sentinelle giovani e meno giovani. Tirano la mezzanotte nel giorno che va a girarsi. L’alba magra dei nostri giorni non ci coglierà come un tradimento, se ci riconosceremo eguali nella potenza della sofferenza e della resistenza.
La marmorea scrittura testimoniale di Primo Levi
Francesca Nodari, guida sicura dei «Filosofi lungo l’Oglio», apre la prima serata dedicata, invernalmente, al ciclo della Shoah, a quel «Fare Memoria» e a chiedersi il Perché sia potuto accadere il massacro costante, scientifico e infernale nei lager tedeschi e come sia stata sopportabile, silenziosamente, la vergogna del mondo prima di aprire il varco ufficiale al rimorso e alla pietà. L’altra sera siamo una cinquantina nella Rocca di Orzinuovi, intirizziti dall’eco di una neve buona, attesi a sentire la riflessione del filosofo della religione e di molto altro, il prof. David Meghnagi,sull’opera di Primo Levi, «Scrittura e testimonianza ».
La dott. Nodari avverte, ancora, sulla possibilità-necessità di una nostra resistenza incarnata al male. Meghnagi ha conosciuto e lavorato con Levi, costruito convegni, controllato l’alzarsi e l’abbassarsi della letteratura leviana nel corpo ambiguo degli scrittori ufficiali. Non è stato amato subito, neanche unpoco, Primo Levi, dice il relatore: scomodo, con il timbro del testimone e dunque non letterato al tempo in cui, lamoda dei premi sdolcinati della letteratura teneva a distanza la testimonianza come fosse fonte di inquinamento, erigendo il vessillo di una letteratura neutralista. Levi, invece,ha creato una lingua e molti ne hanno ripercorso i sentieri. I sopravvissuti, spesso,usano lo schema leviano, indicano il male e il dolore con le medesime emozioni letterarie, si riavvolgono in un lutto con l’accento di preghiere sorelle. David Meghnagi insiste: la letteratura vera non è invenzione, è spirito di parola testimoniale. Levi viene tenuto lontano dal club degli scrittori vacui e seduttivi e lui stesso viene considerato vacuo per non essere nel centro dell’effimero.
Finalmente, quando la storia claudicante incontra la schiena diritta di tante persone, allora la letteratura e la testimonianza attingono alla sorgente della salvezza, alla parola che si fa azione. Il ruolo di Primo Levi quale scrittore viene riconosciuto con «La tregua», 1963. Eppure, quel testo egli altri di Levi avrebbero rappresentato uno strumento poderoso, e laico e santo, per una riconciliazione di destra e di sinistra, per un passo in avanti dell’umanesimo cristiano certo nell’anelito di un comune destino. Levi è scienziato e usa la precisione della scienza nella scrittura, sottrae l’inutile, utilizza la metafora della chimica, lavora sul sangue orante e cerca e spera di tenerlo lontano dagli abissi intanto che accende i lumi predestinati, notturnamente, di un lutto esposto prima della morte. Levi, il testimone, è libero. La vittima è soppressa,la letteratura riesce a reinventare, diremmo a resuscitare se fosse possibile, la vittima e il testimone nella stessa carne e nello stesso spirito, per mediazione.
La letteratura, dice Meghnagi, è congiunzione tra vittima e testimone. La letteratura è insieme vita e memoria, si «transustanzia» nella comunione di chi va a morire, inerme e già torturato, a garanzia di un misterioso delitto totale. David Meghnagi incanta, riporta i lumini ebrei dell’alba e li appende a immaginari e nostri fiocchi di neve. Quando non ce la facciamo con la prosa, rischiamo la poesia.Vige un silenzio catacombale nella Rocca e per qualche minuto si pensa alla lacrima propria e del compagno di banco. Si è come in classe, all’alba di Levi in quel liceo D’Azeglio di Torino dove si argomentò un’adolescenza di luce e avanzò la tenebra. «...Sono solo al centro di un nulla...». Scriveva. Certificava, universalmente, la solitudine di ognuno.
Orzinuovi Natale colorato in Rocca
Paolo Petrò, Sergio Plevani, un libro, rispettivamente un centinaio di dipinti di realismo sostenuto e in parte metafisico e un centinaio dell’epopea naif, con opere di collezionisti di razza. Poi un testo di Plevani. Mentre passano domani i filosofi di Francesca Nodari, con un convegno deluxe,con le luminarie a stelle intermittenti della grande piazza che rimbalzano sulla statua di Garibaldi e sfrecciano, semaforicamente, nei finestroni e nei pertugi delle merlature, tra il garrire delle quattro bandiere lassù in cima al castello di Orzinuovi, mentre si attende di regolare un orologio stanco ma bello, calano alla Rocca per le feste di Natale, diversi eventi culturali,due mostre di pittura e un libro, tutto ben legato come un pacco natalizio, di qualità.
Molto e bello, non di quelle mostre tanto per farle. Alla Rocca di Orzinuovi, inun colpo solo, da questo venerdì 21 dicembre, inaugurazione alle 17.30, presente il sindaco di Orzinuovi, Andrea Ratti, Petrò presenzierà alla sua antologica, (aperta fino al7 gennaio). Lui è artista di vaglia e di bravura non solo bresciana e lombarda, a cui capita spesso di essere invitato in giro per il mondo. E a chi non sa e non ha incrociato uno dei dieci suoi cataloghi sostanziosi, un invito allo studio e al rispetto. Soprattutto, un invito a visitare i musei in cui l’opera di Petrò stanzia. Petrò, alla Roccadi Orzinuovi, si accompagna a una cinquantina di dipinti ricchi di cromatismi apprezzati già da Repossi e da quelli là che furono direttori e docenti di Brera. Accanto a lui, Sergio Plevani, presidente della Gymnasium, l’associazione a scopo benefico che distribuisce borse di studio a chi è bravo e fa fatica economicamente. Plevani e i suoi amici sono collezionisti di opere naif, mica il naif del mercatino di quarta segata, qui si tratta di naif nazionali e internazionali le cui firme entrano nei libri d’arte. Per gli amanti del noir malfidente e frustrato è meglio si sappia che eventuale ricavo per la vendita del libro e dell’opera sarà per i bisognosi. «Laudomia detta Lilla» è il titolo del romanzo presentato da Plevani, romanzo di carattere storico, di affetti e di sentimenti profondi.
Ottimo per il Natale, serve a spazzolare un poco di quell’ipocrisia, prêt a porter, di chi rotondeggia «buon Natale» e durante l’anno traccia ragnatele di dispetti e di capricci, di maldicenze e doppia faccia. Petrò porta moralità con le note compositive della frugalità, conunpiù di intelligenza compositiva,armonia critico culturale con il tempo frugale che attraversiamo. E poi c’è il raddoppio dell’aria di innocenza, che al piano alto, i naif di Plevani portano naturalmente con sé. Alle feste, dunque, entri alla Rocca di Orzinuovi con la bellezza di Petrò, i naif di Plevani e l’innocenza del libro sempre di Plevani.
Alla Rocca orceana sono invitati tutti gli amici di oggi e di ieri di Petrò e dell’Amministrazione comunale, che siano bianchi, rossi e verdi, poiché la cultura è incolore. Avanti coloro che onorano la cultura come Francesca Nodari,sempre limpida nella proposta di pensiero e nelle argomentazioni felici e buone. E avanti Egle Vezzoli e gli amici di Forma Arte, anche questa volta, fautori di questi eventi senza danari. Per passione. Tutti invitati, senza biglietto. Tutto gratis. Apre il corteo dei pochi ma buoni,meno siamo meglio secondo Arbore, speriamo,Paolo Petrò, Sergio Plevani, il libro, damigelle Francesca Nodari e Egle Vezzoli. A posto.
Donne Leader, il «poker» 2012
«Le donne devono essere presenti, ma anche visibili perchè le loro capacità siano riconosciute da tutti e perchè possano arrivare sempre più a ricoprire i ruoli che contano». Così Laura Cavagnini, portavoce dell'associazione Ewmd Brescia nel presentare le quattro vincitrici del premio «Donne Leader 2012» l’altra sera in San Barnaba: le imprenditrici Pia Donata Berlucchi e Manuela Bonetti e le filosofe Giulia Felappi, cui è andato il premio primavera, e Francesca Nodari. Donne che avranno il compito di stimolare con le loro storie altre donne, perché non cadano nel vittimismo, ma con tenacia siano protagoniste di un lento, ma profondo cambiamento.
Un premio per quattro donne «modello»
Pia Donata Berlucchi,imprenditrice nel settore del vino, amministratore delegato dell'azienda di famiglia e prima donna in assoluto a sedere nel consiglio bresciano della Banca d'Italia, Francesca Nodari, filosofa e direttore scientifico del festival «Filosofi lungo l'Oglio»,kermesse culturale locale nota ormai a livello nazionale, e Manuela Bonetti, amministratore delegato di Frabo e vicepresidente del comitato piccola industria di Confindustria Cremona.
La complessità degli universi armonici di Ervin Laszlo
Francesca Nodari e Ervin Laszlo, la regina dei Filosofi lungo l’Oglio davanti al teorico illustre della complessità, a Ervin Laszlo, amico di Nobel e di una vasta intellettualità orientale e occidentale.
Quel saluto che è benedizione e memoria della creazione
Il salutare è un’esperienza quotidiana che accade nella vita di ognuno.Ma nell’essenza di questo atto pre-linguistico è contenuta buona parte del nostro essere uomini.