Francesca Nodari, guida sicura dei «Filosofi lungo l’Oglio», apre la prima serata dedicata, invernalmente, al ciclo della Shoah, a quel «Fare Memoria» e a chiedersi il Perché sia potuto accadere il massacro costante, scientifico e infernale nei lager tedeschi e come sia stata sopportabile, silenziosamente, la vergogna del mondo prima di aprire il varco ufficiale al rimorso e alla pietà. L’altra sera siamo una cinquantina nella Rocca di Orzinuovi, intirizziti dall’eco di una neve buona, attesi a sentire la riflessione del filosofo della religione e di molto altro, il prof. David Meghnagi,sull’opera di Primo Levi, «Scrittura e testimonianza ».
La dott. Nodari avverte, ancora, sulla possibilità-necessità di una nostra resistenza incarnata al male. Meghnagi ha conosciuto e lavorato con Levi, costruito convegni, controllato l’alzarsi e l’abbassarsi della letteratura leviana nel corpo ambiguo degli scrittori ufficiali. Non è stato amato subito, neanche unpoco, Primo Levi, dice il relatore: scomodo, con il timbro del testimone e dunque non letterato al tempo in cui, lamoda dei premi sdolcinati della letteratura teneva a distanza la testimonianza come fosse fonte di inquinamento, erigendo il vessillo di una letteratura neutralista. Levi, invece,ha creato una lingua e molti ne hanno ripercorso i sentieri. I sopravvissuti, spesso,usano lo schema leviano, indicano il male e il dolore con le medesime emozioni letterarie, si riavvolgono in un lutto con l’accento di preghiere sorelle. David Meghnagi insiste: la letteratura vera non è invenzione, è spirito di parola testimoniale. Levi viene tenuto lontano dal club degli scrittori vacui e seduttivi e lui stesso viene considerato vacuo per non essere nel centro dell’effimero.
Finalmente, quando la storia claudicante incontra la schiena diritta di tante persone, allora la letteratura e la testimonianza attingono alla sorgente della salvezza, alla parola che si fa azione. Il ruolo di Primo Levi quale scrittore viene riconosciuto con «La tregua», 1963. Eppure, quel testo egli altri di Levi avrebbero rappresentato uno strumento poderoso, e laico e santo, per una riconciliazione di destra e di sinistra, per un passo in avanti dell’umanesimo cristiano certo nell’anelito di un comune destino. Levi è scienziato e usa la precisione della scienza nella scrittura, sottrae l’inutile, utilizza la metafora della chimica, lavora sul sangue orante e cerca e spera di tenerlo lontano dagli abissi intanto che accende i lumi predestinati, notturnamente, di un lutto esposto prima della morte. Levi, il testimone, è libero. La vittima è soppressa,la letteratura riesce a reinventare, diremmo a resuscitare se fosse possibile, la vittima e il testimone nella stessa carne e nello stesso spirito, per mediazione.
La letteratura, dice Meghnagi, è congiunzione tra vittima e testimone. La letteratura è insieme vita e memoria, si «transustanzia» nella comunione di chi va a morire, inerme e già torturato, a garanzia di un misterioso delitto totale. David Meghnagi incanta, riporta i lumini ebrei dell’alba e li appende a immaginari e nostri fiocchi di neve. Quando non ce la facciamo con la prosa, rischiamo la poesia.Vige un silenzio catacombale nella Rocca e per qualche minuto si pensa alla lacrima propria e del compagno di banco. Si è come in classe, all’alba di Levi in quel liceo D’Azeglio di Torino dove si argomentò un’adolescenza di luce e avanzò la tenebra. «...Sono solo al centro di un nulla...». Scriveva. Certificava, universalmente, la solitudine di ognuno.