Il teologo americano Arthur Cohen chiamò i campi di sterminio nazisti «il Tremendum»: monumenti, scrisse,«di un’inversione senza senso della vita verso un’orgiastica celebrazione della morte». Dopo una simile tragedia, perché si dovrebbe tornare a coltivare la speranza? Massimo Giuliani, docente di Studi ebraici e di Ermeneutica filosofica all’Università di Trento (ha da poco tradotto e curato per Morcelliana il libro di Cohen sull’olocausto), ha cercato di proporre una risposta l’altra sera, nel Teatro comunale di Erbusco, durante il quarto incontro di «Fare memoria», la rassegna a cura di Francesca Nodari dedicata al ricordo della Shoah.
Giuliani ha conversato intorno al suo testo, già leggibile nel nuovo instant book di «Fare memoria» edito da Massetti Rodella, ed ha esordito ricordando le parole pronunciate nel 1990 dal cardinale Carlo Maria Martini: la Shoah è «un crimine imperdonabile che graverà sempre sulla coscienza europea». Auschwitz, osserva Giuliani, «sembra mettere in dubbio il processo che a partire da Kant giunge fino a metà del ’900: quella modernità cheha cambiato il volto dell’Europa. L’olocausto ha segnato la fine dell’illuminismo, ma per molti studiosi è stato anche "il" suo fine: alcune sue premesse erano già presenti in certi processi della modernità».
È la «dialettica dell’illuminismo» teorizzata da Adorno e Horkheimer, secondo i quali «i germi barbarici, ad esempio il pensiero razzista, sono già dentro la modernità ». Agli antipodi delle speranze illuministe, Auschwitz «sconvolge le nostre categorie consolidate e il tentativo di giustificare l’uomo di fronte al male nel mondo».E produce una «bancarotta del pensiero». Pure, esiste un’altra faccia della Shoah: quella dei «giusti» che in molti modi si opposero alla dittatura, mettendo in gioco la propria vita. Come ha osservato il filosofo Emil Fackenheim, il fatto che anche di fronte alla «logica irresistibile» del nazismo vi fu qualcuno che seppe resistere mostra a noi la «ragione ultima e più profonda per sperare». Speranza e disperazione convivono nell’uomo contemporaneo, in un drammatico rapporto dialettico.
Scrive Cohen: «La speranza che Dio offre all’uomo e la disperazione che l’uomo restituisce a Dio è la dialettica più feroce che il nostro tempo abbia vissuto». Non dev’essere la morte, però, ad avere l’ultima parola: «Vi è qualcosa di più grande, la dignità umana e la sacralità dell’interiorità che nessuna violenza può sopraffare». Gli ebrei, dice Giuliani citando ancora Fackenheim,«non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume»: se la disperazione vincesse, il mondo sarebbe lasciato in preda alle forze di Auschwitz. Al rabbino Izchaq Nissenbaum del ghetto di Varsavia è attribuita l’espressione teologica «qiddush hachajjim », «santificazione della vita». Indica «il dovere assoluto che un ebreo ha oggi di sopravvivere, contrapposto all’atto del martirio». Nobile atto di fede, quest’ultimo, ma anch’esso «assassinato ad Auschwitz,quando i nazisti hanno privato le vittime della possibilità dell’assenso alla loro stessa morte».
Dopo la Shoah, la speranza è dunque «un debito morale che abbiamo verso le vittime, soprattutto nella misura in cui si tratta di una speranza contro Auschwitz, custodendo la memoria storica di quel che è stato e vigilando in modo critico sul presente».Perché essere giusti è sempre possibile: «Basta tenere aperti gli occhi e vincere il virus dell’indifferenza e del pregiudizio».