Male assoluto, indicibile, diabolico, estremo. Sono solo alcune delle louzioni con cui la filosofia del’ 900 ha descritto gli orrori di Auschwitz. Quella dimensione «iperbolica del male», che, in un tragico oltrepassamento dei valori e dei limiti, ha fatto «sprofondare la civilissima Europa negli abissi nichilistici». All’interpretazione ha contribuito «non solo l’inaudita atrocità dei fatti storici», ma anche il cosiddetto «paradigma Dostoevskij». La lente fornita dall’ equazione «male uguale nichilismo», da un punto di vista sia etico che ontologico, rimanda l’osservazione del «piacere assoluto di chi è posseduto dal godimento della distruzione», di un male che non è mai slegato dal potere. Anzi: i demoni dostoevskiani sono accomunati dall’aspirazione a «prendere il posto di Dio e della sua infinita libertà». È così che il male «entra nel mondo», scatena il disordine e diventa fonte di sofferenza.
Eppure la lettura demoniaca dello sterminio nazista non rende del tutto conto dei complessi meccanismi che ne hanno consentito la realizzazione. Primo Levi, l’autore di «Se questo è un uomo» aveva invitato «a complicare la scena», ammettendo che il palcoscenico del male non è quasi mai una «dimensione a due».
La tesi è proposta dalla filosofa Simona Forti, intervenuta l’ altra sera in città, introdotta da Francesca Nodari, su «La questione del male tra trasgressione e obbedienza», per l’ incontro promosso dall’ associazione Filosofi lungo l’Oglio con Casa della Memoria. «Non ho scritto un libro per affermare che non esistono persecutori malvagi e vittime innocenti. Ma se le azioni dei primi hanno così successo è probabile che sia perché a questa istanza di assolutizzazione della morte risponde la richiesta dei molti di assolutizzare la vita» ha detto la studiosa, riferendosi al suo saggio «I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere» (2012). L’ opera traccia una nuova genealogia del nesso tra male e potere, ripensandone fenomenologicamente gli aspetti «microfisici»: non deve essere indagato soltanto nel legame con la morte e il nulla, ma analizzato nel rapporto che intrattiene con l’ostinata passione per la vita, col desiderio di essere riconosciuti. Forti intende superare la «metafisica della malvagità» che ha connotato buona parte dell’ermeneutica novecentesca, quindi la dicotomia sul cui fondo rimane sempre l’immagine della relazione vittima-carnefice.
Ne «I sommersie i salvati» di Levi si trova la più «sobria, molecolare» confutazione di tutte le concezioni demoniache del potere, attraverso la presenza «grigia» di individui che, in nome dell’ottusa obbedienza e del mero conformismo, ma soprattutto spinti dalla volontà di sopravvivere, collaborano al male o assistono da passivi spettatori alla sua esecuzione. Sulla «banalità del male» si era già interrogata a fondo Hannah Arendt, e fu anche molto criticata.
Ora, la «microfisica» indicata da Levi, e sviluppata da Simona Forti, ci offre un’analisi dei rapporti di potere che funziona anche in situazioni meno estreme. Quel «desiderio insopprimibile della libertà» che si concretizza nel bisogno di prestigio, e nella necessità di scaricare su altri il peso dell’ umiliazione e delle offese, «lo ritroviamo in ogni convivenza umana, dal lager ad uno stabilimento industriale».