Amore e conoscenza
Thánatos (θάνατος) è il termine greco antico per morte. Nella mitologia greca Thánatos ne è il dio e presenta caratteristiche diverse. Talvolta è descritto come irremovibile: il suo cuore di pietra non conosce grazia, ai suoi artigli non sfugge nessuno, ai prescelti taglia con il coltello una ciocca di capelli. Contrariamente a sua sorella Ker, che personifica la morte crudele, Thánatos rappresenta anche la morte dolce. Il giovinetto Thanatos con un movimento calmo abbassa in silenzio e tristemente la fiaccola della vita. La vita si spegne. Accanto a Ker, Thánatos ha altri fratelli e sorelle, gli Oneiroi, i sogni, o le Moire che filano, reggono e tagliano il filo della vita. Ma il suo gemello è Hypnos, il sonno, col quale spesso viene rappresentato in coppia. Il superamento della morte è un tema antichissimo, che si rispecchia in varia maniera nei miti classici. Sisifo per esempio riesce a imprigionare Thanatos per un certo periodo, tenendo lontana la morte agli uomini; ma alla fine tutti vengono da essa vinti. In età medievale e moderna Thánatos riceve un altro compagno e antagonista nel dio adolescente Eros, in latino Amor. Insieme attraversano i paesi e lanciano le loro frecce - d’oro per l’amore, d’osso per la morte. Talvolta le scambiano e allora i vecchi si infiammano d’amore e i giovani ad esso vengono prematuramente strappati. La tesi della “cecità” dell’amore, l’idea che esso sia espressione di istinti e sentimenti e non anche di ragione e saggezza è comunque limitata nel tempo e decisamente minoritaria. Temporalmente più lunga e sostanzialmente più consistente è la tesi ispirata alla “mutua incrementazione” (U. Curi) di amore e conoscenza in filosofia, come mostra il termine stesso di filosofia che unisce amore e conoscenza. Oltre che nel testo chiave da esplorare (il Simposio di Platone, in cui Eros, se seguiamo la sua guida verso la bellezza, può farci diventare immortali), questa tesi può essere seguita in Platone, Aristotele, Spinoza, Bruno, Pascal, Schopenhauer, Nietzsche. Una specifica declinazione del nesso eros-thánatos è costituito nella storia di Giulietta e Romeo (Piramo e Tisbe, etc.), in cui ciascuno dei due amanti è confrontato con la morte dell’amato, realizzabile soltanto inscenando una prima morte simulata di uno dei due. Imponendo una volontaria rinuncia alla vita e superando l’ostilità originaria che ostacola l’amore, quest’ultimo risulta alla fine vittorioso, amor vincit omnia. Ma dimostra anche che l’unione è indissolubile dalla separazione, la felicità dal dolore, la vita dalla morte. In età contemporanea è Sigmund Freud che riporta a nuova vita la coppia, collocando i due opposti nella psiche dell’uomo. Amore e morte non sono più forze naturali cui l’uomo è soggetto ma forze interne: Eros dell’istinto di sopravvivenza, Thánatos dell’impulso di distruzione e di morte. La dualità dei due principi come pure la loro unione scatena osservazioni e riflessioni di vario genere, persino sul fenomeno moderno dell’archiviazione dei dati. Che sia un impulso, ossessione per sfuggire alla morte nell’aspetto della dimenticanza? Per mantenere la funzione vitale dell’Eros nel ricordo e nella memoria che l’archiviazione dei dati permette di conservare?
Eros, agápe, amore di sè
Eros nelle più antiche cosmogonie designa una delle divinità fondamentali identificata con la forza generatrice del mondo, dal VI secolo a. C. con il nome di Eros si indica il dio della passione amorosa, figlio di Ermes e Afrodite. L’eros come insegna Platone è nostalgia dell’assoluto, in grado di attuare nell’uomo la conversione dal sensibile al sovrasensibile. In Platone e in Aristotele e in generale nel mondo greco, l’eros ha carattere esclusivamente acquisitivo e non donativo. Di contro, nel pensiero cristiano l’eros viene identificato con l’amore carnale e concupiscente in contrapposizione alla agápe o carità, che è l’amore donativo verso Dio e verso il prossimo. Come è noto questo termine viene usato dalla versione greca dell’Antico Testamento e dal Nuovo Testamento per indicare l’amore di Dio per gli uomini e la forma di esistenza che in esso si fonda. Il Nuovo Testamento vi riconosce il nucleo centrale della rivelazione cristiana, affermando che «Dio è amore» (1 Gv 4, 8-16).
Nei vangeli sinottici Gesù connette indissolubilmente l’amore di Dio e l’amore del prossimo come i due aspetti del più grande comandamento (Mt 22, 36-40). L’amore cristiano (agápe, charitas) non deve colmare un proprio bisogno, ma si dà con sovrabbondanza e gratuità. Su questa linea Agostino riprese l’elevazione platonica, identificando l’amore con lo Spirito Santo: per tutto il Medioevo e il Rinascimento, dall’amore cortese allo Stilnovo, al neoplatonismo fiorentino si ebbe un’oscillazione tra l’amore sensuale profano e l’amore dell’estasi religiosa, con punte di esoterismo e di misticismo. Empirismo e razionalismo si riappropiarono invece dell’idea aristotelica di amore come soddisfazione di piacere o ricerca dell’utile, mentre con il romanticismo si ritrova un amore fortemente appassionato e velato di nostalgia per il divino. Contrapposto a eros e ad agápe, v’è l’amore di sé o amor proprio che, per i moralisti francesi del ‘600, in particolare B. Pascal e N. Malenbranche indica, rispettivamente, un sentimento naturale che porta alla ricerca della propria conservazione e una passione disordinata che porta ad amare soltanto e stessi. J. J. Rousseau stigmatizzò l’amor proprio come «un sentimento … nato nella società, che porta ogni individuo a prestare più attenzione a sé che a ogni altro». Nel ‘700 britannico la coppia di termini amore di sé-amor proprio venne usata nel dibattito sul paradosso di B. de Mandelville, che enuncia la dannosità della virtù e l’utilità del vizi. In A. Smith l’amore di sé si identifica con l’interesse, il movente che sta alla base del funzionamento del mercato. Dopo I. Kant, per il quale l’amore di sé «la sorgente di ogni male», la coppia dei termini in oggetto verrà soppiantata dal neologismo egoismo.
Morte e conoscenza
La sfida posta dalla morte alla conoscenza ha raggiunto uno dei momenti più alti nella nascita della filosofia. In Anassimandro la morte appare come passaggio doloroso ma temporaneo dell’eterno ciclo della natura; in Anassagora e negli atomisti come fase del processo creativo. Per Eraclito la morte e la vita si assimilano come parti di un unico movimento di metamorfosi. E ancora, la morte designa in Parmenide la condizione morale dell’uomo, che chiamato alla conoscenza della verità, non sa spogliarsi dell’attaccamento passionale al finito. Del resto la filosofia stessa è, per Platone, preparazione alla morte. Assunta come oggetto di pensiero la morte ha irretito la riflessione in uno dei più inquietanti problemi di metodo. Da Epicuro a L. Wittgenstein e a J.-P. Sartre la storia della filosofia occidentale è stata attraversata, a più riprese, dall’impensabilità della morte come regola aurea per l’esercizio di un corretto pensiero, che nulla può dire di ciò che gli è per natura estraneo, come appunto la morte. Quasi parafrasando la celebre affermazione di Epicuro contenuta nella Lettera a Meneceo: «quando ci siamo non c’è la morte, quado c’è la morte noi non siamo più», Wittgenstein ha scritto che «la morte non è evento della vita. La morte non si vive» (Tractatus logico-philosophicus, 1918).
Thánatos, finitezza, passaggio, nulla
La morte è per Sartre il rovescio di ogni possibilità, «la possibilità dell’impossibile» che venendo incontro dall’esterno «ci trasforma in esteriorità» (L’essere e il nulla, 1955). La rimozione della morte nell’alterità non ha tuttavia sottratto in modo definitivo il pensiero all’esperienza profonda di lutto che si radica nella coscienza e la travolge. Su questo terreno secondo Agostino (Confessioni) vita e morte tendono a fondersi. Posto dalla morte dinanzi alla possibilità di un non senso, il pensiero ha aperto e percorso più strade. Così per G. W. Leibniz non vi è morte perfetta (Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, 1714). Per I. Kant la supposizione di «un’esistenza che continui all’infinito» correlata a «una personalità dello stesso essere razionale (la quale si chiama immortalità dell’anima)», è insieme all’esistenza di Dio, un postulato dell’esperienza morale, che nel suo processo di miglioramento non può certo scorgere nella finitezza un limite invalicabile (Critica della ragion pratica, 1788). Per G. W. F. Hegel la morte ha una portata salvifica: essa pone fine alla negazione propria dell’essere individuale. Essa è «un nulla, la nullità manifesta» nella quale il finito si autolibera dalla finitezza; come nullità posta «è in pari tempo il superato e il ritorno al positivo» (Lezioni sulla filosofia della religione, 1821-31). E ancora, per L. Feuerbach e K. Marx la morte è affermazione dell’esistenza dell’essenza, vittoria della specie sul singolo. Analogalmente in A. Schopenhauer la morte segna il venir meno dell’apparenza. Infine sulla morte come possibilità non estraniante dell’esistenza si è concentrata l’attenzione di gran parte della filosofia contemporanea, soprattutto grazie agli sviluppi del pensiero ermeneutico e della ricerca fenomenologica. W. Dilthey fu tra i primi a indicare nella relazione della vita con la morte «il rapporto che caratterizza in modo più profondo e generale il senso del nostro essere» (Vita vissuta e poesia, 1905). M. Heidegger e M. Scheler hanno dedicato studi fondamentali all’analisi del volto intimo della morte e all’esperienza originaria del suo manifestarsi. In Heidegger (Essere e tempo, 1927) la morte si presenta come «la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e, come tale, indeterminata e insuperabile», che manifestandosi nell’angoscia pone l’uomo nella condizione di decidersi per un’esistenza autentica. Scheler colse nell’esperienza del tempo vissuto il luogo in cui si ha notizia originaria della morte; mentre E. Levinas – memore del monito di Rosenzweig di : «rimanere nel timore della morte» poiché essa: «non è ciò che pare essere, non è nulla, bensì un inesorabile, ineliminabile qualcosa» (La stella della redenzione, 1921) – avverte la necessità di non pensare più – versus Heidegger – il tempo a partire dalla morte, ma la morte a partire dal tempo: «è della morte dell’altro che sono responsabile al punto di includermi nella morte». In termini forse più accettabili: «Sono responsabile dell’altro in quanto egli è mortale […] La morte dell’altro: è questa la mia morte prima. È a partire da questa relazione, da questa deferenza alla morte dell’altro e da questo interrogare che è una relazione all’infinito, è a partire da ciò che bisognerà affrontare il tempo» (Dio, la morte, il tempo, 1993).