GRANDEZZA VERSUS GRANDIOSITÀ
In un mondo in cui l’apparire ha preso prepotentemente il sopravvento sull’essere, in una società dominata dal culto dell’immagine e dalla nuda esibizione della grandiosità sembra quasi una provocazione parlare della nobiltà, intesa come magnanimità, ovvero come l’essere degni e capaci di cose grandi.
«Questa parola – scrive Salvatore Natoli – oggi ha perso la sua originaria pregnanza e verità. La si impiega spesso in modo improprio. Quando di una persona si dice che è magnanima per lo più si intende dire che è una persona aperta, concessiva, generosa. Si confonde, così, la magnanimità con la liberalità, abolendo una distinzione che peraltro era ben chiara agli antichi. Per gli antichi la magnanimità era una virtù eminente e, per eccellenza, una virtù esemplare» (1).
L’obiettivo che anima il saggio qui presentato risiede proprio in ciò: dare conto – in un corpo a corpo con Aristotele, Platone, lo stoicismo, Ambrogio, Agostino, Tommaso d’Aquino, Teresa d’Avila, san Giovanni della Croce, Margherita Porete, Meister Eckhart, lo stesso Nietzsche – di un concetto che trova la sua scaturigine nel mondo antico, viene ereditato dal mondo cristiano e torna ancor oggi a farci rifettere sulla sua natura intrinseca come se, in certo senso, ci trovassimo a vestire i panni dell’ingenuo nipote cui il vecchio zio, nei Miserabili di Victor Hugo, ricorda la distinzione tra barone e avvocato e lo esorta a non confondere i piani, gli stili di vita. Se
«nobiltà vuol dire magnanimità, ove borghesia e democrazia vuol dire pusillanimità»(2),
non si potrà non convenire che «la prima ha come oggetto l’onore, la seconda l’utile» (3). Marco Vannini, avvia la sua analisi, richiamando i tratti della ferezza dipinti con grande acume da Aristotele nell’ Etica Nicomachea: avendo di mira l’onore, il magnanimo è un uomo buono, giusto:
«è un estremo per la grandezza, ma è nel giusto mezzo per la correttezza, infatti si stima secondo il suo merito, gli altri invece eccedono e difettano» (4).
Questi, incarnando la ferezza, che è medietà riguardo all’onore e al disonore – «eccesso è detta una certa forma di vanità, difetto è la pusillanimità» (5) – non serba rancore (6), non ama accedere ai posti d’onore, «non parla né di sé né degli altri» (7), non chiede nulla, ma offre il suo aiuto con prontezza (8), non stima grande alcuna cosa (9), non è portato a lamentarsi e preferisce benefcare che essere benefcato (10); non ama il rischio,
«ma affronta grandi rischi, e quando lo fa, non risparmia la vita, convinto che non è da lui il voler vivere ad ogni costo» (11).
E ancora, preoccupandosi «più della verità che della buona fama» (12), è schietto e sincero – non ha peli sulla lingua (13), «non si agita, né è nervoso» (14): il magnanimo è colui che «è grande in ciascuna virtù» (15).
«Per questo è diffcile davvero essere un uomo fero, perché non si può essere tali senza virtù completa» (16).
E di virtù, non a caso, parlavano gli stoici per indicare l’immagine della nobiltà descritta da Aristotele che meglio si precisa come quella ca- pacità di mantenere un certo distacco da ciò che accade: l’imperturbabilità, la compostezza – né troppo gioire né troppo patire dinnanzi a ciò che la fortuna – vox media – ci riserva, ma fare fronte. Vannini, se per un verso, non esita a sottolineare come questa corrente di pensiero abbia infuenzato, sin dagli inizi, il mondo cristiano, per l’altro mostra come sia la mistica «la continuazione vera – l’unica – della flosofa antica» (17).
Di qui le parole chiave che sostanziano due capolavori della mistica medievale quali Lo specchio della anime semplici di Margherita Porete – beghina irregolare secondo i cronisti del suo processo: morì sul rogo a Parigi nel 1310 (18) – e I sermoni del grande predicatore domenicano Meister Eckhart: il nobile amore, il distacco da sé, la «lieta indifferenza alla propria sorte» (19), l’uomo interiore versus l’uomo esteriore, «il fondo dell’anima che è privo di ogni determinazione perché vuoto di ogni volere» (20), dunque il disprezzo verso tutto ciò che vuole permanere. Un fare vuoto di sé che annulla ogni appropriatezza e che manifesta il proprio sdegno nei confronti delle mere opinioni, delle mere convinzioni ossia di tutto ciò che ha a che fare con l’inter-esse. Un esodo o excessus (21) da sé che ci permette
«di riconoscere l’egoismo e la menzogna che è connaturale alla volontà, quasi tutt’uno con essa» (22).
Ma perché l’uomo interiore e nobile divenga homo divinus è necessario che, nella sua beata aghnosìa, sia giusto: distaccato dalla propria egoità e da tutto ciò che gli appartiene. Così ancora ammonisce Eckhart nel sermone 39, Il giusto vivrà in eterno e la sua ricompensa è presso Dio:
«Se vuoi, dunque, vivere e vuoi che vivano le tue opere, devi essere morto e diventato nulla per tutte le cose. È proprio della creatura fare qualcosa da qualcosa, ma è proprio di Dio fare qualcosa da nulla. Se, dunque, Dio deve compiere qualcosa in te o con te, deve prima essere diventato nulla. Perciò scendi nel tuo fondo e opera là: le opere compiute là sono tutte vive. Perciò il sapiente dice: il giusto vive» (25).
Resta, tuttavia, sullo sfondo – come l’autore, nella sua conclusione, fa notare – il grande problema del giusto ostracizzato e il paradosso tra chi vuole apparire giusto senza esserlo e chi «non vuole apparire buono, ma esserlo» (26).
A questi, «tetragono fno alla morte» (27), come Aristide l’ateniese, di cui narra Plutarco, toccherà una sorte meno felice di chi si è fnto giusto con la menzogna. Rischierà la derisione, la persecuzione, forse il palo ma nessuno potrà sottrargli la sua nobiltà (28). Del resto basta guardare la nostra società dei consumi per capire come la grandiosità abbia preso il posto della grandezza. Tuttavia essa non è scomparsa: si dà velandosi. Per usare ancora le parole di Natoli
«sembra che oggi la magnanimità abbia preso l’abito dell’umiltà: agisce nascosta come i trentasei giusti (nistar) della tradizione talmudica, che, in ogni generazione, sono le colonne del mondo» (29).
1. S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1997, p. 74.
2. Cfr. infra, pp. 18-19.
3. Cfr. infra, p. 19.
4. Aristotele, Etica Nicomachea, IV, 7 1123 b.
5. Ivi, II, 7 1107 b.
6. Ivi, IV, 7 1125 a.
7. Ibidem.
8. Ivi, 1124 b.
9. Ivi, 125 a.
10. Ivi, 1124 b.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Ivi, 1125 a.
15. Ivi, 1123 b.
16. Ivi, 1124 a.
17. Cfr. infra, p. 27.
18. Cfr. G. Fozzer, Lo specchio delle anime semplici, intr. di M. Vannini, Polistampa, Firenze 2001.
19. Cfr. infra, p. 28.
20. Cfr. infra, pp. 32-33.
21. Cfr. M. Vannini, La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Le Lettere, Firenze 2004.
22. Cfr. infra, pp. 38-39.
23. Cfr. infra, pp. 45-46.
24. M. Eckhart, I sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002, p. 391. Sull’argomento, fondamentale il testo di M. Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano 2010.
25. M. Eckhart, I sermoni, cit., p. 320.
26. Platone, Repubblica, II, 361 b-c.
27. Ivi, 361 c-d.
28. Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, IX, «Che cos’è aristocratico?», 268. Scrive Nietzsche: «Gli uomini più simili e più ordinari sono stati e sono sempre in vantaggio, quelli più eletti, più raffnati, più singolari, i più diffcilmente comprensibili, restano facilmente soli, soggiacciono nel loro isolamento, alle sciagure e di rado si trapiantano. Occorre appellarci a immense forze contrarie, per potersi opporre a questo naturale, troppo naturale progressus in simile, la prosecuzione dell’uomo nel simile, nel consueto, nel medio, nel gregario – nel volgare! –».
29. S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, cit., p. 76.