Illegalità e inganno contro la convivenza - di Remo Bodei
Non parlerò della fiducia, ma del suo contrario o, per meglio dire - prenderò l'idea di fiducia “contropelo”, quando viene simulata anche se non concessa. In linea di principio bisogna riconoscerne il valore, perché senza di essa nessun rapporto umano o politico ido potrebbe esistere e durare. All’occorrenza la si deve, dunque, fingere, indossando la maschera dell'ipocrisia. Sempre in linea di principio, se lasciassimo, infatti, vincere la diffidenza e il sospetto, se dovessimo metterci ogni volta a calcolare le manovre che gli altri stanno escogitando per nuocerci e ingannarci, allora non solo l'amore e l’amicizia, ma anche i rapporti personali e il funzionamento stesso della società verrebbero bloccati. Oltretutto la fiducia, è conveniente, ci permette di ottenere reciproci vantaggi, favorendo la cooperazione degli individui tra loro.
Questa concezione è stata insistentemente sostenuta e diffusa nella seconda metà del Settecento dai maggiori filosofi e dallo stesso padre dell’economia politica Adam Smith. Se si dà la caccia al cervo — è un esempio di Rousseau — a praticarla bisogna essere almeno in due; ma se mentre faccio la posta, vedo passare una lepre e la inseguo abbandonando il mio compago, in termini quantitativi, io guadagno 1 e l'altro 0, mentre, se avessi cooperato, insieme avremmo guadagnato 10, quindi 5 a testa. Sempre allo stesso scopo, nel suo Trattato sulla natura umana, Hume porta un altro esempio: “Il tuo grano è maturo, oggi; il mio lo darà domani. E’ utile per entrambi se io oggi lavoro per te e tu domani dai una meno a me".
Se invece non ci mettiamo d'accordo, «il tempo cambia ed entrambi perdiamo ii raccolto per mancanza di fiducia reciproca. Ma quali sono i fattori che minano la fiducia e, quindi, la convivenza civile? Certamente l’ illegalità (spesso impunita) che va da quella minuta a quella macroscopica e culmina con le stragi e il terrorismo. Nessuno è così ingenuo da credere in una società governata da una perfetta giustizia. Pochi infatti, sarebbero capaci di resistere alla tentazione di comportarsi illegalmente o immoralmente, qualora possedessero il mitico anello di Gige a renderli invisibili, quel dispositivo ricordato da Platone nella Repubblica che permetterebbe a ciascuno di “arraffare tranquillamente quel che vuole al mercato, di entrare indisturbato nelle case e prendersi le donne che vuole, di uccidere, di liberare chi vuole dalla prigione, e di fare altre mille alle cose come un Dio tra gli uomini”. Non scomparirebbero, inoltre, i cosidetti free riders, individui che, contando sull’osservanza delle regole da parte degli altri, si permettono nascostamente di violarle (consumando, ad esempio, a loro piacimento, il massimo di corrente elettrica quando incombe un black out).
Diversa è, tuttavia, la paura sparsa dal terrorismo di Stato rispetto a quella provocata dai gruppi eversivi: nel primo caso prevale il timore del midnight knock, dell’irruzione notturna della polizia nella casa dei cittadini, della loro condanna attraverso processi farsa (con accuse ridicole come quella mossa a Bucharin ai tempi di Stalin di aver fatto mettere frammenti di vetro nel pane destinato ai proletari di Mosca), dell’annientamento della dignità delle persone, che rende tutti virtualmente colpevoli e risveglia in molti i più bassi istinti di autoconservazione. Il terrore seminato dai movimenti terroristici, che sfidano il monopolio statale della forza legittima colpendo in modo indiscriminato cittadini inermi, può invece provocare, in un corpo politico sufficientemente robusto, anche reazioni positive di rigetto e di autodifesa, in grado di esaltare il senso di fiducia e di lealtà dei cittadini nei confronti del proprio paese.
Tra le due forme di paura esiste, tuttavia, un comune elemento dirischio: la propensione ad imboccare un piano inclinato suscettibile di riportare gli uomini verso l’imbarbarimento, di indurre al sospetto reciproco, di spegnere la spontaneità e l’abitudine, di uccidere la speranza, di fare dell’angoscia un normale ingrediente della vita quotidiana, di inquinare, in sostanza, la fiducia.
Comunità e fedeltà: coppia inscindibile – di Adriano Fabris
Le relazioni interumane si basano sulla fiducia. Senza fiducia non c’è comunicazione, e la stessa fiducia data, non già posseduta, è alla base della stessa elaborazione della verità: pur essa concepita, anzi tutto, come qualcosa che è in quanto viene messa in pratica, a partire dall’accoglimento di ciò la cui istituzione non è in mio potere. Ma voglio rispondere fin da subito a un'obiezione che sicuramente mi potrà essere fatta. Nella realtà, nella nostra esperienza quotidiana, questa situazione di accoglimento condiviso si verifica solo in certi, casi. Il dono della fiducia è spesso fatto e accettato solo a rischio e pericolo di chi lo offre. Molte persone continuano a non comportarsi in maniera affidabile. E dunque è meglio diffidare, diffidare sempre, diffidare di chiunque. E’ più sicuro. Che fare? Dobbiamo davvero lasciare spazio solo a rapporti improntati al sospetto?
Dobbiamo praticare pensieri doppi e riserve mentali? Ma in tal modo finiremmo noi stessi per non essere considerati più affidabili e fedeli. E tutte le nostre relazioni ne sarebbero danneggiate. Ho già accennato al problema, sottolineando come la fiducia, e la fedeltà che la consolida, siano alla base anche della possibilità di comportamenti infidi, e con ciò rispondendo all’obiezione. Ma nel far questo mi sono riferito soprattutto alle relazioni interumane. Ho parlato di conversazione e di dialogo. E invece oggi il mondo della comunicazione é molto più complesso e diversificato. Esso si media attraverso strumenti tecnologici che lo hanno modificato e continuano a modificarlo radicalmente. Una delle conseguenze di queste trasformazioni è che il potere dell’inganno si è esteso a dismisura. Lo dimostrano le volute falsificazioni, la propaganda ideologica, le mezze verità o le troppe verità che ci vengono quotidianamente sottoposte. Ma quello che comunque ci dicono i mezzi di comunicazione di massa, proprio nella capillare e ambigua diffusione che li caratterizza oggi, sono due cose importanti.
Ci dicono, da un lato, che il bisogno dì fiducia, pur nell'epoca del disincanto, torna sempre a riproporsi; dall'altro, che è necessario tenere assieme, per creare mantenere viva questa fiducia, sia l'aspetto della costruzione condivisa dei contenuti, sia il riferimento a uno stato di cose ben definito. Ecco perché, in realtà, le tesi di Gorgia e di Socrate non debbono essere contrapposte fra loro. La comunità comunicativa si basa infatti su entrambe le esigenze che essi esprimono. In sintesi: sullo sforzarsi di una condivisione della verità, e dunque su di una costruzione comunitaria di essa, e sull'accordo comune riguardo a ciò che s'impone come vero.
Che cosa cl resta da fare, allora, per quanto riguarda, l'assunzione preliminare di un atteggiamento di fiducia? Perché dobbiamo accettare questo dono e, a nostra volta diffonderlo? Quel che ci resta da fare è, in ogni caso, assumerci il rischio insito in un tale accoglimento. Il rischio è quello di porre la fiducia alla base non solo delle nostre relazioni di cui facciamo parte considerata nel suo complesso. Dobbiamo essere consapevoli, infatti, che non c'è comunità senza fiducia reciproca. La fiducia può essere anche mal riposta, certo, ma l'alternativa è peggiore: è l'isolamento, l’individualismo sfrenato, la guerra di tutti contro tutti, il fraintendimento sistematico dei diversi soggetti.
Ecco perché, se la fiducia è un dono, si tratta sempre di un dono gradito. Non ci resta altro, in altre parole, che ribadire la nostra professione di fedeltà. Possiamo cercare di esser fedeli a quella fiducia senza la quale nessuna relazione è possibile, possiamo riacquistare e far riacquistare fiducia con i nostri comportamenti concreti magari dicendo la verità. Anzi, come c’insegna il Nathan di Lessing, facendo la verità.