Introducendo il distinguo tra bisognoe desiderio, l’uno indice di una mancanza, l’altro che implica una tensione, il primo che non è altro che mero rapporto con me stesso,il secondo che contempla inevitabilmente la relazione con l’altro, il filosofo del tatto lascia da subito intendere che la felicità non è mera satis-factio. Di qui l’andare all’origine della radice da cui trae linfa l’albero etimologico del termine, il cui valore sconvolgente sta nel «poppare», nel succhiare il latte dal seno materno.
Da quella elevazione, da quel sé del dono – come scrive Nancy ne La nascita dei seni – si dà il point de départ della felicità, che non è il mero appagamento attraverso il nutrimento, né un rapporto simbiotico: nella suzione si dà già lo scarto tra dentro e fuori, tra «fame di sé» e «fuori di me»: l’essere sé e l’essere padrone di sé – la singolarità e l’intimità – riconoscono che la «miità» viene da fuori: «Io sono il seno», dice Freud. «Sono quella sporgenza, quella elevazione e quell’esposizione. Ciò non vuol dire che “io” sono “là”: non c’è prima un me, poi la sua posizione nello spazio-tempo, ma io sono quel “là”, sono il là in quanto tale, quell’apertura, quella distinzione, quell’innalzamento, quello slancio, quello scavo. […] È questa la nascita: la venuta di un “me” attraverso il “me” di una venuta. Un “sé” che si leva da “qualche parte”, perché “qualche parte” si apre o si offre come un “sé”. Si apre e si offre a se stesso, dunque a te».
Ma il seno materno, avverte il filosofo,non rinvia a un ritorno, non è tanto indice della nostalgia dell’origine, ma fa segno di un fuori irreversibile: è la possibilità stessa di sentire in generale, di accettare o rifiutare un fuori, di gustare come di sputare. Il seno, in quanto là del sentire, è ciò a partire da cui si dà la chance che sottende ogni esistenza. Il neonato, infatti, si trova in quella particolare condizione in cui bisogno e desiderio sembrano coincidere. Ma in quel suo tendere le labbra, in cui pare sorridere agli angeli apparentemente soddisfatto, v’è già inscritta quella fame della vita che tende inevitabilmente a un fuori. Per Nancy, dunque, la felicità non è tanto riempimento di una mancanza che si traduce in un semplice: «assez», né gratificazione, né merito, né il perseguimento estenuante del piacere che porterebbe a un troppo; non è neppure privazione o castrazione, rifugge da qualsiasi tipo di eccesso. La felicità, che si schiude a partire dal succhiare il latte materno, porta con sé inevitabilmente una fragilità «perché precisamente consiste nell’esposizione infinita a un fuori che può sempre sfuggire o invadere fino a farla esplodere»3. È eccitazione, incitazione. In una sola parola: esistenza. Vale a dire esposizione corporea e abbandono. Ed è felix colui cui non manca la chance e non teme, anzi accetta la sfida, di rapportarsi a sé rapportandosi a un fuori.