Osare non assicura dunque la qualità dell'azione, questa può rivelarsi creatrice e buona, o distruttrice e malvagia. Osare non è, in sé, una virtù. Questa consiste nel superare i limiti sociali, morali, intellettuali, spirituali, e fisici stabiliti da una società, da un patrimonio di idee e di pensieri, da ciò che altresì si crede di sapere di sé.
Se questo atto apre spesso una breccia portatrice di novità e di speranza, per sé e per gli altri, esso può anche trasformarsi in qualcosa di tragico. Raramente lo si sa in anticipo. Si può anche desiderare di superare i limiti che ci si è posti in registri molto diversi con delle conseguenze che si riveleranno creatrici, per sé, per gli altri; o distruttive per sé, così come per gli altri. Osare ha a che fare qui con il cambiamento, il rischio, la scommessa o ancora la promessa, un patto importante.[...]
Che l'audacia di coloro che sperano vada oltre le constatazioni severe, disilluse o amare, di coloro che non scorgono alcun margine di speranza in una vita che sembra votare gli umani alla sofferenza, significa che questa audacia dipende da un desiderio condannabile? Questa audacia rifiuta di acquietarsi e di rassegnarsi perché essa ritiene in primo luogo che tali constatazioni non si attengono mai unicamente ai fatti: esse sono infatti sempre anche (il risultato di) una decisione del pensiero, decisione filosofica e spirituale, decisione di dichiarare questi fatti senza alcuna via d'uscita. Tuttavia, dalla constatazione per esempio che la speranza della giustizia e della libertà, è ovunque oltraggiata e che gli esseri umani sono votati così spesso a perirne, se ne deve necessariamente dedurre che questa speranza è essa stessa detestabile? Vi sono ovviamente situazioni disperate, private e collettive, non si tratta né di negarle, né di fingere di non vedere questo verdetto. Ma sperare non significa aspettarsi un miracolo, una compensazione per la sofferenza o ancora una ricompensa o un salario che, un giorno lontano, o in un'altra vita, leniranno infine lo sconforto. Osare sperare, è sperare per il presente: «L'acuità della speranza è la gravità dell'istante in cui si compie», precisa Levinas.
Nel 1941, mentre si trovava imprigionato, Léon Blum scriveva: «Noi lavoriamo nel presente, non per il presente». E in questo anno dunque «in cui tutti gli dèi visibili ci avevano abbondonato, in cui dio è veramente morto o tornato alla sua irrivelazione, scrive ancora, un uomo continua a credere in un avvenire non rivelato e invita a lavorare nel presente per le cose più lontane nei confronti delle quali il presente è una perpetua smentita. [...]
Agire per le cose lontane nel momento in cui trionfava l'hitlerismo, nelle ore sorde di quella notte senza ore [...] è senza dubbio il culmine della nobiltà». È anche quello dell'audacia propria della speranza. Di un'audacia che non attende che emergano delle ragioni di sperare per permettersi di sperare. Questa audacia qui, questa maniera di sfidare i limiti che un potere o che una situazione sembra ergere davanti a sé irreprensibilmente, può nascere in chiunque scopra che lui/lei vive di una luce che le evidenze tenebrose non riescono ad annientare. Anche quando se ne constata la furia devastatrice attorno a sé, anche quando la sua presa sulle anime sembra decisamente invincibile, rimarrebbe in sé, nonostante tutto, la possibilità di testimoniare con le proprie azioni, con le proprie parole e i propri pensieri, una realtà diversa da quella della sventura. [...]
L'insperato non corrisponde a un contenuto che si adatterebbe ad un'attesa precisa. Sorprende sempre, ma esso sorprende dapprima lo stesso uomo che, in un quotidiano immerso nell'oscurità, lo testimonia attraverso un comportamento di bontà e di giustizia, indipendente da ogni razionalizzazione. Penso qui alle pagine di Vasilij Grossman che, nel suo straordinario romanzo Vita e destino, analizza lungamente il significato della piccola bontà senza ideologia che il grande male terribile si accanisce ad uccidere ovunque e in tutti, senza riuscirci. Come se questa piccola bontà fosse invincibile poiché sopravvive ancora, invincibile, e osa compiere gesti imprevisti di soccorso, sfidando questo grande male terribile che ovunque domina in un mondo in guerra e lo devasta. È, dice Grossman, «la bontà di un contadino che nasconde nel suo fienile un vecchio ebreo; la bontà di quelle guardie di prigione che rischiano la loro propria libertà, trasmettendo le lettere dei detenuti alle mogli e alle madri».
In un mondo che soccombe alle seduzioni del male, un mondo nel quale Dio sembra tacere ostinatamente e smettere di ascoltare la chiamata delle Sue creature, questa bontà testimonierebbe tuttavia un'alleanza immemoriale dell'umano con il bene, essa sarebbe il segno dí un Dio ancora straordinario. Di un Dio che bisogna saper aiutare donandogli la forza affinché Egli non si spenga nell'anima delle Sue creature.