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Domenica, 10 Gennaio 2021 02:03

Alla difficile ricerca delle donne di Levinas

Emmanuel Levinas Emmanuel Levinas

Quale ruolo gioca la donna nel pensiero di Levinas? È davvero colei che resta sospesa tra il nome e il corpo, condannata al silenzio ed esclusa, se così si può dire, dalla scena di un pensiero che afferma l'etica come filosofia prima arrivando addirittura a proporne una nuova caratterizzazione: la filosofia non sarebbe tanto o solo amore della saggezza ma, in ultima analisi, saggezza dell'amore?

Sono solo alcuni degli interrogativi che accompagnano lalettura del libro di Catherine Chalier, Le figure del femminile in Levinas, edito da Morcelliana.

Un libro che raccoglie il testo che dà il titolo al volume e che è stato scritto nel1982 e poi rivisto con l'aggiunta del saggio finale L'estasi del tempo nel 2006.

Chalier, studiosa raffinata ed allieva del grande filosofo ebreo lituano, prende in esame buona parte dell'intera produzione di Levinas cercando di far emergere i punti deboli che, a suo dire, tradirebbero il ruolo da deuteragonista riservato al femminile che perderebbe, a differenza di quanto emerge negli scritti degli anni quaranta, il suo statuto di alterità radicale e originaria. Forse che il filosofo che come pochi si è occupato della relazione tra il Moi e l'Altro fino a far diventare questa continua auscultazione come se essa stessa fosse segnata da quel «ritardo irrecuperabile» dell'uno nel rispondere all'altro una ragione di vita, sia inciampato, come si legge nell'introduzione, «sui suoi stessi piedi»?

Ora se è innegabile che non siano pochi gli studiosi che hanno evidenziato le stridenti aporie «fatte di guadagni teorici sul fronte della decostruzione di una certatradizione fallo-logo-centrica, ma anche di imbarazzanti ritorni a stereotipi», come evidenzia Rita Fulco nel suo sostanzioso saggio: L'alterità dell'altra. Levinas, il femminile, l'umanità dell'umano (Bollettino Filosofico 34 (2019):179-192), è altrettanto evidente che Levinas non sia un pensatore della differenza sessuale.

Chalier, come già fece la Irigaray che, in Essere due (1994), si spinse a collocare Levinas tra quei filosofi maschi che «pensa solo a partire da se stesso, uomo, e non in due», sottopone a severa e giusta critica affermazioni sulla donna che sono da ritenersi irricevibili allorché in uno dei testi della maturità, Totalità e infinito (1961) Levinas, che pur elevando la donna ad emblema dell'accoglienza nella dimora nella sua evanescenza e vulnerabilità, nella sua tenerezza 'cora-mossa", non esita a definirla devisagée, senza volto, dai tratti quasi animali «come una volontà irresponsabile che non dice delle vere parole» e «che ha lasciato il suo statuto di persona».

Secondo l'autrice Levinas, che pure sottolinea una certa allergia della filosofia all'alterità e alla donna, avrebbe commesso l'errore di dire nel logos greco segnato da «un certo mutismo sul femminile» «un pensiero che viene da altrove».

Analogon della soggettività, il corpo femminile è colto come metaforizzazione dell'incarnazione: «un abbandono senza ritorno, la maternità, corpo che soffre per l'altro, corpo come passività e rinuncia, puro subire». Il femminile, pur essendo ciò che rende possibile il passaggio dalla notte fonda del ciè in cui il soggetto si trova irretito e come inchiodato all'essere, pur garantendo il passaggio al tempo dell'Altro e l'apertura all'avvenire, patisce la sospensione dell'essenza vissuta nel corpo: in esso dimora, da sempre, questo suo sapere «di carne e di sangue». Per questo motivo la sua intesa è "senza parole" e il suo linguaggio "senza insegnamento"»: «una donna è figura, tema o metafora, solo mancando di parola e di volto».

Di qui per Chalier il necessario ricorso alla lingua ebraica nello sforzo di ritrovare quel senso altro del linguaggio che darebbe conto dell'assenza del femminile senza ridurla al Detto. La filosofa, richiamando la storia del nome di Sara, ricorda come lo yod che chiudeva il nome (Sarai) venga regalato da Dio ad un uomo, Josué. E non è di poco conto il fatto che «lo yod è anche una delle lettere del nome divino, segno perciò della trascendenza, così si dice anche continua Chalier che la donna è colei che non può conoscere il mistero della trascendenza, ma che, tuttavia, è colei che lo trasmette, che ne tramanda la lettera». Il suo "proprio", grazie a questa «lingua di viandanti», sarebbe «esattamente il sapere di ciò che sempre eccede».

Resta, tuttavia, il fatto che questa lettura del femminile non terrebbe conto fino in fondo del «posto eccezionale della femminilità» nel pensiero di Levinas. Un'«alterità trascendente» che «ci è apparsa si legge in Il tempo e l'altro (1947) come «una differenza che va al di là delle differenze, non soltanto come una qualità differente da tutte le altre, ma come la qualità, appunto, della differenza».

Del resto, se si guarda alla ripresa di alcune categorie fondamentali degli anni quaranta sia in Altrimenti che essere (1974) sia in scritti coevi andamento questo che trova una sorprendente conferma nell'officina filosofica di Levinas rappresentata dai Carnets de captivité (2009), appunti stesi durante i cinque anni di prigionia nello Stalag 1492 ci si accorge della portata decisiva del femminile nel darsi del suo pensiero «incarnato» al punto da far dire a Derrida, che pure non ha risparmiato critiche al filosofo dell'alterità, «che è a partire dalla femminilità ribadisce in Adieu à Emmanuel Levinas (1997) che esso definisce l'accoglienza per eccellenza, l'accoglienza e l'accoglimento dell'ospitalità assoluta, assolutamente originaria, perfino preoriginaria, cioè, nientemeno che l'origine pre-etica dell'etica».



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