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Sabato, 04 Luglio 2015 09:34

Il mondo è globale a metà

Nonostante le realtà del mondo-città in gran parte d'Europa siamo ancora prigionieri di una concezione cristallizzata, immobile, dell'utopia. Le grandi invenzioni dell'architettura urbana negli anni Sessanta partecipavano delle illusioni della Città radiosa, cioè del presunto desiderio di vivere tra pari, sul posto, senza doversi muovere.

Negli anni Sessanta, e ancora dopo il 1968, si privilegiava la residenza intima, la propria casa. Nel 1952 la Ville radieuse di Le Corbusier corrispondeva all'ideale di un'esistenza sedentaria, in un quadro di vita in cui tutte le risorse erano a portata di mano. Si tratta di un ideale di vita riscontrabile in Europa negli anni seguenti: , un buon esempio di tale fenomeno ci viene offerto da alcune panoramiche dei sobborghi di Roma ne La dolce vita di Fellini (1960). L'ideale dell'epoca era dunque quello di una felicità autocentrata. Ma un paradosso storico ha voluto che negli anni Settanta, in seguito alla politica di ricongiungimento familiare in Francia, fosse gente venuta da altrove a occupare i luoghi idealizzati come simboli del vivere a casa e tra pari. Alla fine degli anni Settanta, come si è visto, la comparsa della disoccupazione di massa ha aggravato questa contraddizione.

Uno dei problemi degli agglomerati in cui oggi vive una maggioranza di immigrati o di discendenti di immigrati è rappresentato dal fatto che, quando i commerci che di essa dovevano vivere e farla vivere hanno chiuso, è emersa una sorta di contraddizione spaziale. Negli anni Settanta era ancora vivo l'ideale riassunto dalla formula «lavorare al paese». Questo ideale di radicamento è stato paradossalmente proposto, o imposto, a popolazioni di origine straniera, mentre quanti avrebbero dovuto esserne i destinatari e i beneficiari principali non vi si riconoscevano più. Lo sforzo per migliorare le relazioni tra immigrati e non immigrati, da una parte, genitori immigrati e figli di immigrati dall'altra, non è stato fatto o è stato insufficiente. La stabilizzazione residenziale ha portato a un principio di segregazione tra immigrati, e non immigrati e a una doppia separazione: quella tra generazioni, nel tempo, e quella dei «giovani nati dall'immigrazione», diventati giovani delle banlieues, nello spazio. L' esempio francese possiede una propria storia specifica. Ma le conclusioni che se ne possono ricavare vanno oltre. Pensare la mobilità significa pensarla a differenti scale per cercare di comprendere le contraddizioni che minano la nostra storia, contrattazioni tutte collegate alla mobilità.
Gli Stati Uniti incoraggiano la creazione di un mercato comune americano, ma innalzano un muro al confine col Messico. L'Europa sembra finalmente prendere coscienza del fatto che l'integrazione nei Paesi di accoglienza non ha senso se non è accompagnata da un sostegno nei confronti dei Paesi di emigrazione. Nel momento in cui l'evoluzione del contesto globale (incremento degli integralismi, del terrorismo, nuovo impulso delle ideologie) rivela il carattere approssimativo dei vari «modelli di integrazione», ridefinire la politica di circolazione degli esseri umani diventa un'urgenza. Pensare la mobilità significa anche imparare a ripensare il tempo. L'ideologia occidentale, con l'idea della fine delle grandi narrazioni e della storia, si è trovata in ritardo sugli eventi: essa parlava di un'epoca senza rendersi conto che eravamo già in un'altra. Affrontava i nuovi tempi con termini vecchi e strumenti superati. I politici parlano oggi di un mondo multipolare, ma bisognerebbe riconoscere che i «nuovi poli» derivano da esperienze storiche originali che non necessariamente vanno oggi raggruppate sotto l'etichetta della «fine della storia». Né la democrazia rappresentativa né il libero mercato sono veramente oggetto di un accordo unanime. L'idea della fine della storia appare fin d'ora come una nuova «grande narrazione». D'altronde, le «grandi narrazioni» hanno in genere vita dura. I fondamentalismi più aggressivi (in primo luogo, le varie forme di islam che l'Occidente oggi raccoglie sotto l'etichetta di, «islamismo») si basano, come suggerisce il nome, su una reinterpretazione del passato, ma si presentano sotto una forma proselitistica che implica evidentemente una visione dell'avvenire.
A dire il vero, si tratta di forme ibride, che sfuggono ampiamente alle categorie elaborate da Lyotard, proiettando nel futuro il modello di un passato fantasticato. Rappresentano anzitutto uno sforzo disperato per sfuggire alla categoria del tempo e, in questo sen-so, costituiscono una delle espressioni più caricaturali della crisi di coscienza contemporanea e della sua incapacità di dominare la storia.

Pensare la mobilità nello spazio, ma essere incapaci di concepirla nel tempo: ecco la caratteristica del pensiero contemporaneo, intrappolato in una accelerazione che lo frastorna e lo paralizza. Ma, per questa stessa ragione, è anzitutto nello spazio che il pensiero contemporaneo tradisce la propria imperfezione. Davanti all'emergere di un mondo umano consapevolmente coestensivo rispetto al pianeta intero, tutto avviene come se indietreggiassimo davanti alla necessità di organizzarlo, rifugiandoci dietro le vecchie divisioni spaziali (frontiere, culture, identità) che fino a oggi sono sempre state ragione di scontri e violenze. Davanti al progresso della scienza, davanti al cambiamento di scala dovuto agli sviluppi delle scienze fisiche e della vita, tutto avviene come se, colta da una vertigine pasca-liana, una parte dell'umanità avesse paura delle conquiste compiute nel suo nome e si rifugiasse nelle antiche cosmologie. Eppure, nostro malgrado, noi avanziamo (nella misura in cui questo «noi» esiste e rimanda al-la parte di umanità generica che tutti gli es-seri umani condividono), e un giorno dovremo pur prendere coscienza che il coraggio politico e lo spirito scientifico sono fatti della stessa stoffa.

Informazioni aggiuntive

  • autore: Marc Augé
  • giornale: Avvenire

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