Dal punto di vista dell'anagrafe il cardinale non avrebbe potuto distinguersi per aver salvato Ebrei dalla Shoah. È quel che ha fatto da studioso prima e poi da pastore che ha rappresentato qualcosa di importante e di unico. Ha ricondotto la Bibbia alla portata di tutti, a cominciare dai cattolici. Ha lavorato per restituire al popolo ebraico la posizione speciale che gli spetta nel disegno divino, contribuendo di fatto a combattere l'antisemitismo.La Bibbia ha caratterizzato la vita di Martini, da quando, bambino, la cercava nelle librerie di Torino in un'edizione «leggibile» (come lui ebbe a raccontare) agli studi successivi cui i superiori della Compagnia di Gesù, in cui era entrato nel 1944, a neanche 18 anni, nel cuore della guerra, gli avevano consentito di dedicarsi. E nella veste di studioso ebbe ruoli da protagonista: uno dei maggiori del mondo, l'unico cattolico al fianco di studiosi di altre confessioni a stabilire la redazione definitiva dei vangeli.
Quando, in pieno Concilio, la parte più conservatrice del Vaticano cercò di punire chi aveva aiutato Giovanni XXIII a preparare l?Assemblea dei Padri e a dare quel fondamento alla nuova Primavera della Chiesa, proprio nella scelta di mettere al centro dei lavori la Parola (anche col gesto simbolico dell'intronazione ogni mattina del vangelo in San Pietro), non ci fu vita facile per i biblisti.In una delle ultime visite che gli feci a Gallarate durante la malattia, Martini mi confidò le gravi difficoltà di quegli anni. Mentre al Biblico fervevano le ricerche e la formazione dei giovani convenuti da tutti il mondo grazie al prestigio di quell'università e figure come il cardinale Bea lasciavano traccia del loro spessore scientifico, culturale, religioso sia nell'accademia sia nel Concilio, partirono violenti attacchi verso quella fucina di intelligenze e di amore per la Parola. Mi raccontò Martini: «Ci accusavano di far leggere la Bibbia come non fossimo credenti».
Un'accusa insopportabile, cui se ne aggiungeva un'altra grave: «Il metodo storico-critico era stimato un pericolo per la fede». Cioè i fondamenti della ricerca che da Roma avrebbero fatto fiorire un nuovo approccio al testo e un nuovo modo di essere Chiesa con la Parola al cuore della fede, in dialogo con altre confessioni cristiane e, soprattutto, con gli Ebrei, erano ritenuti da parte della gerarchia una minaccia. Da punire anche. Tant'è che alcuni di quegli studiosi vennero allontanati e fu loro impedito di continuare a studiare e a formare giovani.Con l'ironia che non gli mancava e che allora, in quei tempi lontani, a molti protagonisti doveva esser servita per sopportare l'urto repressivo, Martini mi raccontò la reazione di uno dei più grandi studiosi della Bibbia, padre Lyonnet.
Questi, quando gli venne notificata la sospensione di un anno dalla facoltà di insegnare, a causa delle sue ricerche avanzate, disse: «Vi annuncio che finalmente mi è stato concesso di godere dell'anno sabbatico!».Fu il giovane Martini, che sarebbe di lì a poco diventato rettore del Biblico, a contribuire a salvare la situazione. Riuscì a collocarsi in una posizione intermedia fra chi attaccava e chi - si avvertivano i primi segnali dell'insofferenza che avrebbe portato al '68 anche nella Chiesa - avrebbe voluto rispondere duramente agli attacchi. Si sforzò con successo di ricomporre i termini del conflitto.
Vien da pensare oggi come, fin da allora, dalla cattedra, Martini coltivasse in sé l'attitudine all'«intercessione» come ebbe a chiamare lui l'atteggiamento che tenne quando si ritirò a Gerusalemme, nel 2002: porsi in mezzo ai contendenti, non per non scegliere e non essere partigiano, ma per far valere le ragioni di un bene comune che vale ancora di più degli schieramenti. In termini conciliari, tipici di Giovanni XXIII (il papa che grazie anche all?aiuto degli uomini del Biblico aveva fatto cancellare dal rito la tremenda formula «perfidi Ebrei»), lavorare per ciò che unisce e non ciò che divide.
Grazie anche a Martini negli ultimi decenni del Novecento si è incominciato di nuovo a pensare la Bibbia, a viverla, a trovare in essa le ragioni fondanti dell'esistenza oltre che della fede, a recuperare il legame profondo col popolo ebraico che Giovanni Paolo II avrebbe chiamato «fratelli maggiori», a rilanciare il dialogo con la modernità alla luce della Parola di Dio. L'ingresso a Milano da Arcivescovo Martini lo fece con la Bibbia in mano: il sogno, la semina, la speranza di un uomo Giusto