Marc Augé - tra i più acuti antropologi del nostro tempo - sia riuscito davvero ad apprendere il presente con il pensiero.
Prof. Augé, viviamo in un clima di disorientamento, di incertezza, di vacuità. Quali sono le nuove paure? Cosa le accomuna?
Prima di rispondere alla sua domanda, vorrei sottolineare che da alcuni anni sono apparse nuove forme di violenza, gli attentati suicidi. Fino a qualche tempo fa si avevano dei martiri che accettavano la morte o degli eroi che rischiavano la loro vita. Ma le «bombe umane» sono la forma assoluta di disprezzo della vita, disprezzo della propria vita e disprezzo della vita degli altri, chiunque essi siano. L’attentatore è cieco: «Dio riconoscerà i suoi». La novità consiste nell’estensione al globo intero di questa minaccia che si presenta come la manifestazione perversa di ciò che vorrebbe essere una guerra civile planetaria. Per il resto, le paure che ci assillano non sono così nuove. Ciò che v’è di nuovo, è la demografia e la comunicazione. Noi abbiamo compiuto il giro del mondo e ci avviamo verso i dieci miliardi di abitanti.Siamo informati su tutto immediatamente. Le immagini circolano e quando noi stessi ne abbiamo realmente una conferma, per esempio la maggiore presenza di immigrati, il loro potere di persuasione risulta depotenziato.
Nel suo saggio v’è un doppio fil rouge: il moltiplicarsi delle diseguaglianze e la convinzione che il pianetasia abitato da tre classi: i possidenti, i consumatori e gli esclusi dai consumi… È così?
È proprio così. Due osservazioni in merito: nei Paesi emergenti, lo scarto tra i più ricchi dei ricchi e i piùpoveri dei poveri è ancora più grande e anche tra coloro che hanno accesso alla conoscenza e coloro che ne sono esclusi. Si deve altresì tener conto della crescita demografica. Il 50% dei poveri sul pianeta all’inizio del XX secolo corrispondeva a meno di 800mila individui, contro i 3-4 miliardi di oggi. Aggiungo un dato: le zone di confine sono quelle in cui la paura è maggiore: i meno abbienti tra i consumatori temono di precipitare nel campo degli esclusi.
Attraverso una disamina serrata e lucida della crisi planetaria, Lei non solo sa calarsi tra le pieghe del reale,stanando le paure e ponendole sotto l’acuta lente dell’antropologo, ma cerca di individuarne l’eziologia e le cause: colpisce molto, in proposito,la denuncia dell’indebolimento del simbolico ovvero del pensiero della relazionee la constatazione che l’individualismo, più che da una mera iniziativa individuale, nasca dalla difficoltà di creare relazioni. Potrebbe approfondire questo punto centrale?
Si parla molto dell’individuo oggi, ma lo si fa generalmente sotto l’aspetto del consumo: il sistema ha bisogno dei consumatori per funzionare; di qui la creazione di nuovi bisogni, di nuovi desideri. Tra i beni di consumo, spiccano gli strumenti della comunicazione che tendono a sostituirsi alleformedi relazione tradizionale, che facevano riferimento allo spazio e al tempo. Tra l’isolamento (la solitudine obbligata, imposta) e la folla (gli altrisenza la relazione) è il simbolico che sparisce: la costruzione del sé attraverso l’incontro con gli altri, che ha un suo proprio spazio e richiede tempo. L’istantaneità e l’ubiquità, che sono l’ideale del mondo mediatico elettronico, sono la negazione del simbolico e servono proprio ad addomesticare le solitudini coatte donando loro l’illusione di un altro mondo.
Il menù quotidiano del nostro presente: stress con contorno di angoscia. Dal rischio del terrorismo alla dittatura dei mercati finanziari, dall’allarme alimentare all’emergenza climatica la paura fa sistema. Il virtuale diventa vetrina digitale, reiterazione di illusioni, di confessioni, di vita denudata, spiata, offesa per la quale, spesso, si chiede di potersi avvalere dell’oblio: «la memoria,come l’Inferno di Sartre - lei scrive - sono gli altri».Cosa si deve fare in un simile scenario? Come già ha evidenziato in «Futuro», la via d’uscita è darsi il sapere come fine in sé, la conoscenza? Sarà questa a liberarci dalle nostre paure?
L’ideale sarebbe rimpiazzare la paura con la curiosità. Le due non sono così lontane l’una dall’altra. È il desiderio di conoscenza che può permettere di passare dall’una all’altra. Questo desiderio stesso è il frutto dell’educazione. L’utopia dell’educazione sarebbe, letteralmente, la vera rivoluzione:consacrare ogni cosa, in primis, all’educazione di ciascuno condurrebbe alla prosperità economica di tutti. È l’ideale dell’Illuminismo, il solo che sia in grado di riconciliare gli esseri umani tra loro econil loro futuro. L’idea di progresso non si può concretizzare che nel campo della scienza. E ciascuno dal canto suo può avvertire in ciò la sua solidarietà con gli altri.