La stessa sensazione di stupore e meraviglia per la capacità di misurarsi con temi così ardui e complessi si registra, inevitabilmente, accostando la lettura di questo testo, La memoria di Dio, ove il genitivo è oggettivo e insieme soggettivo: è la memoria di Dio nei confronti dell’uomo e dell’uomo nei confronti di Dio. Un rapporto da leggersi in chiave bilaterale e che già è preludio di quel dialogo tra il Creatore e la sua creatura. E se è vero, come è vero, che l’uomo è immagine di Dio, non è certo avventato cercare di immaginare come sarebbe il Signore, se fosse un essere come noi. Paolo De Benedetti confida di non poterlo pensare senza tre organi fondamentali: l’orecchio per ascoltarci, la bocca per istruirci e il naso per sentire i profumi che si levavano dai sacrifici, quando il tempio esisteva ancora. D’altro canto questo tentativo di farsi più vicino a Dio – un Dio, ricorda PDB, che potrebbe anche «assopirsi» e, magari, rivelarsi, a tratti «smemorato» – tradisce da subito il darsi della Sacra Scrittura in termini di un racconto ove gli attori sono Dio e l’uomo e insieme l’esplicazione della storia ebraica in quanto toledot, in cui sono produttore e ricettore di ricordi, in nome di quella catena della ricezione che arriva fino a noi. E che si chiama Torà che-è-sulla-bocca. Un esempio tangibile, concreto di Torà orale è questa stessa interpretazione che PDB offre della memoria di Dio, che si rivela come una celebrazione del nome. Di contro al concetto greco-latino di historia, che ha a che fare con l’indagare, con l’oggettivare ciò che, in generale, è stato; la storia come generazione rinvia alla fecondità intrinseca che è contenuta nel ricordare il nome. Dice Rosenzweig, in maniera sublime, contro l’assioma declamato da Faust in risposta al celebre interrogativo di Margherita: «Con la chiamata mediante il nome la parola della rivelazione entrava nello scambio dialogico reale; nel nome proprio è collocata la breccia che interrompe il rigido muro della cosalità. Ciò che ha un proprio nome non può più essere cosa, non può più essere di tutti, è incapace di entrare senza residui nella specie, poiché non c’è specie a cui appartenga, è specie a se stesso. […] (Egli) porta con sé il suo “qui” ed il suo “ora” dovunque egli vada. […] In verità il nome non è (come non cessa di pretendere l’incredulità nella vuotezza della sua orgogliosa ostinazione) mero rumore e fumo, ma è parola e fuoco. Occorre invocare il Nome e confessare: “io credo questo Nome”». Da una tale esigenza di ricordare il nome scaturisce il bisogno che l’uomo avverte che Dio non si dimentichi di lui e insieme il bisogno che Dio, a sua volta, manifesta di essere ricordato dall’uomo. Pena la sofferenza stessa di Dio e la cancellazione del nome del peccatore. Condizione impensabile per un ebreo e che «è peggio della morte». È desolazione, miseria, «finta di niente», abbandono. «Noi dobbiamo sperare che Dio si ricordi dei nostri nomi – chiarisce PDB – cioè accolga positivamente quello che siamo stati, che accolga il racconto». Una speranza che, in più luoghi della Bibbia, si fa essa stessa preghiera anche laddove il dolore afferra nella sua morsa, rende muti, abbruttisce, porta alla disperazione. Giobbe ne è un esempio. Una preghiera che, nella tradizione ebraica, non può non essere accompagnata dal narrare ogni giorno il racconto di Dio nella storia fatta delle «storie» di ciascuno di noi. Di qui la centralità dell’adempimento dei precetti e della loro rigorosa osservanza, poiché, anche laddove non pare abbiano a che fare con la dimensione strettamente religiosa – si pensi solo alle regole alimentari o a quelle che riguardano i filatteri e l’accensione delle luci –, in realtà divengono pratica concreta di una narrazione feconda, ossia ricordo di Dio. Un ricordo, oseremmo dire, che accade nella storia effettuale di ognuno nel momento stesso in cui osserva questo o quel precetto. Un evenire del ricordo che porta con sé – di nuovo torna il carattere fecondo dello zachor – la possibilità, come accade a Mosè dopo l’episodio del vitello d’oro (Es 32,13-14), «di far cambiare idea a Dio». Dunque memoria che si fa memoriale attraverso ciò che l’autore non esita a chiamare «sacramenti della vita quotidiana». Questo è ciò che ci trasmette Paolo De Benedetti a proposito della memoria di Dio nei confronti dell’uomo e dell’uomo nei confronti di Dio, al punto che un tale insegnamento, che si somma agli innumerevoli contenuti nei suoi testi e diffusi oralmente, sembra divenire la cifra del racconto del nome di PDB. Come dicono i Padri: «Se David re d’Israele, che imparò da Achitofel non più di due cose, lo ha chiamato suo maestro, suo amico, e confidente, quanto più chi impara da un altro anche solo un capitolo o una halakhà o un versetto o una parola o perfino una lettera, deve rendergli onore» (PA VI,3). Siamo convinti, se ci è concesso esprimerci in tal modo, che chiunque abbia conosciuto PDB non possa che sottoscrivere queste parole e, nel rendergli onore, narrare il suo nome.
Paolo De Benedetti - La memoria di Dio
NARRARE IL NOME «Io traggo ispirazione da coloro che mi sono di fronte. Dai loro volti. Dalle loro parole».
È questa la risposta che Paolo De Benedetti fornisce, quando gli si chiede donde venga quel talento di «scavare con le mani nel pensiero», come ben ha colto Gabriella Caramore, facendo proprie le parole di Jehudà ha-Levi, nell’introdurre una delle ultime fatiche di PDB, Detti dei Padri (dal Talmud).
Informazioni aggiuntive
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il libro:
Genere: Saggistica
Collana: Fare memoria 4
Formato: 110x155x4 mm - pp. 48 - copertina semirigida
Edizione: 2012
ISBN: 978-88-8486-523-6
Prezzo: 5,00 - acquista online: acquista online
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