L'ospite ha invitato a praticare una «memoria dinamica», rivolta al futuro: «Perché non si ripresentino le condizioni che hanno causato quella tragedia». E ha ravvivato la sollecitazione con il ricordo - evocato con semplicità e qualche attimo di commozione - delle esperienze vissute da bambino sotto il fascismo. «Dopo il settembre '43 - ha raccontato Laras - chi, come noi, era sfollato in montagna dovette scendere per evitare rastrellamenti e fucilazioni.
Nel luglio del '44 io e mia madre andammo dalla nonna materna a Torino. Ci aveva scritto: non ho mai fatto male a nessuno, cosa devo temere? Era la follia della brava gente, che non aveva capito di trovarsi in un mondo di malvagità». Il 2 ottobre, a mezzogiorno, i fascisti vennero ad arrestarli. «Eravamo stati denunciati: i delatori ricevevano cinquemila lire a persona. Nel loro elenco io non comparivo, e mia madre li convinse a lasciarmi libero in cambio di ventimila lire e qualche pacchetto di sigarette. Ricordo il lungo pomeriggio: uscirono solo a sera, col coprifuoco, per evitare i gruppi di partigiani». Madre e nonna sono morte nel lager di Ravensbrück, vicino a Berlino: «A lungo non ho voluto andarci. L'ho fatto solo poco tempo fa, con mia figlia. Ho trovato i loro nomi in un registro. Tutto era annotato con rigore, anche la data della morte: 29 dicembre 1944». Dopo la guerra, cominciò l'attesa dei reduci. «Andavo quasi tutti i giorni alla stazione con mio padre. C'era tantissima gente con le foto degli scomparsi, in cerca di notizie. La vita intanto riprendeva, e tutti tendevano a dimenticare. Nella mia classe c'era una bambina scampata al lager. L'insegnante un giorno le disse: Segre, non raccontare queste cose così tristi... Anche le vittime però volevano voltare pagina: il silenzio dei testimoni è durato quasi 40 anni».
Oggi è il tempo a farne scomparire le voci; mentre una «pseudo-storiografia negazionista» insinua il dubbio sulla veridicità dei loro racconti. «Perché la memoria non si consumi - ammonisce il rabbino - è necessario non solo consegnare ai posteri il ricordo di quei fatti, ma anche trasmettere un atteggiamento di netto rifiuto della violenza e dell'intolleranza, che diventi patrimonio etico di uomini e donne del domani». È un impegno difficile, capace di sollevare «interrogativi angosciosi su silenzi e connivenze, anche da parte del mondo cristiano e della cultura laica europea, di fronte alla tragedia. Pur tenendo presente il contesto storico, rimane la sorpresa per il fatto che la paura ha impedito di reagire: il giorno dopo le leggi razziali del '38, amici non ebrei facevano finta di non conoscermi». La memoria dello sterminio può assumersi il compito di «rivoluzionare lo spirito umano»: «Pochi pensatori si sono davvero misurati col problema del male che Auschwitz solleva.
C'è chi ha imputato a Dio la responsabilità. Io credo che non dobbiamo chiederci dov'era Dio, ma dov'era l'uomo». La questione è «antropologica, non teologica: persone libere hanno deciso coscientemente che gli ebrei non avevano diritto di vivere. Ciò è avvenuto perché il sistema etico nazista era autonomo, loro stessi avevano creato il suo fondamento.
I sistemi eteronomi, invece, pongono il fondamento al di fuori: al centro è la sacralità della vita umana». Accogliendo il relatore, il sindaco Dante Daniele Buizza ha osservato che la lunga durata dell'umanità «richiama ad andare oltre i ricordi personali per dare ascolto alle esperienze degli altri, in una dimensione etico-morale».
È un dovere ascoltare quanto lo è raccontare, pur sapendo che i ricordi tendono a sbiadire: «Che importa - ha concluso Rav Laras - se un giorno il nostro impegno sarà risultato improduttivo? A contare non è solo l'esito delle nostre azioni». È scritto nel Qohelet: «C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare». Siamo ancora nel tempo della parola, «che in quanto tale è tempo di responsabilità e impegno».