Byung-Chul Han è senza dubbio uno dei filosofi più apprezzati della nostra contemporaneità. Sudcoreano, naturalizzatosi tedesco, poco incline al viaggiare per sua stessa ammissione e capace, in un andamento a tratti contemplativo, di colpi di genio nel saper leggere la nostra contemporaneità è stato in grado di fornirci una rivisitazione acuta di alcune categorie del pensiero classico del Novecento focalizzandosi sul disagio dell'individuo nella società palliativa caratterizzata dalla prestazione, dalla competizione, dall'anestetizzazione della sofferenza, dall'appiattimento delle contraddizioni e dal venir meno della negatività. L'informatizzazione del mondo trasforma le cose in «non-cose» o infomi: ovvero in agenti che elaborano informazioni. Il telos dell'ordine digitale è il superamento del «cruccio» che, secondo Heidegger, è il tratto fondamentale dell'esperienza umana. Lo smartphone è l'infoma per eccellenza. Non è solo il telefono che squilla, ma un medium iconico e informativo. Assurto a una sorta di «devozionale», è un dispositivo di sottomissione. Il digitale destruttura il reale e sostituisce il simbolico con l'immaginario, conducendo all'erosione della comunità. Si afferma il regime dell'informazione - «l'infocrazia» - il quale non opera in modo repressivo, ma seduttivo. La libertà non viene repressa, ma sfruttata: si ribalta in controllo e manipolazione.
Oggi abbiamo smarrito, persino, il valore terapeutico della prassi narrativa, viviamo in una società in cui il contatto è assente, l'ascoltare è bandito e in cui la povertà di esperienza significa una povertà di mondo. E se a ciò si aggiunge l'ossessione dell'iperattività e l'inflazione dell'ego imprenditore di se stesso e la tendenza sempre più forte al multitasking, il risultato non può che essere duplice: da un lato, l'emersione e la moltiplicazione di disturbi di natura depressiva e nevrotica, di malessere e di stanchezza; dall'altro la sostituzione delle relazioni personali con le connessioni telematiche e con la progressiva abolizione dell' humanum.
Ora, l'ultima fatica di Han dal titolo: Del vuoto. Sulla cultura e filosofia dell'Estremo Oriente potrebbe essere letta come una riflessione che se, in prima battuta, risulta «davvero enigmatica agli occhi di chi si muove nell'alveo della cultura occidentale», in realtà costituisce il punto di partenza, per così dire, delle ragioni che stanno all'origine della critica dei fondamenti della nostra cultura per smascherarne il paradigma dicotomico fondato sulla contrapposizione tra soggetto e oggetto, la tendenza all'azionismo e al fare, la progressiva e conseguente espulsione dell'Estraneo. Contrapponendo alla centralità di concetti chiave quali essenza, sostanza, stabilità e verità, la sospensione del vuoto, Han attua - di fatto - un ribaltamento. Le filosofie, le pratiche e le consuetudini diffuse in Asia orientale sono mosse da un'istanza profondamente diversa: al posto dell'essere troviamo semplicemente una via (tao); e l'assenza, il vuoto sostituisce l'essenza (Wesen). Come dire: se per il pensiero occidentale: «esistere è desiderare», per la cultura dell'Estremo Oriente, l'esistere è un vagare. Il viandante non abita da nessuna parte, il saggio vaga Iaddove non esiste «né cancello né casa», al punto che viene paragonato a una quaglia priva di nido cioè priva di un domicilio fisso. L'essere è più faticoso del non-essere. Chi si affatica, chi si sforza resta nell'essere. Il vagare diventa la dimensione plastica del vuoto poiché «là tutte le differenze sono scomparse. La mia volontà non ha scopo e io non so dove arrivo». Ed è proprio questa libertà dal senso, dalla direzione, dal fine e dallo scopo a consentire una libertà superiore. Questa sintonia col tutto crea una «gioia celestiale» superiore alla felicità. Di qui Io sconfinamento dell'essere-nel-mondo in un esseremondo. Essere-nel-mondo è inquietudine, preoccupazione; essere-mondo è leggerezza al punto che questa dimensione di sospensione e assenza svuota l'amore e l'amicizia trasformandoli non tanto in un che di indifferente, ma in una «affabilità» che consiste nell'abbracciare ogni cosa in modo imparziale.
Il vuoto diventa la cifra del pensiero dell'Estremo Oriente nelle sue diverse declinazioni: dall'architettura al teatro, dal giardino zen fino all'estetica giapponese wabi-sabi che riassumendo in sé l'incompiutezza, il caduco, il fragile e l'insignificante si contrappone al magnificente, al rigoglioso, al perfetto del mondo occidentale. È wabi (bella) una tazzina di tè che ha un che di rotto, è wabi l'opaco e l'ombroso; non è bello il trasparente e l'immacolato. Ma anche la cucina è segnata dall'assenza: si pensi al riso, che pare vuoto a causa della sua acromia e per via del suo sapore sciapo che lo innerva di assenza. Per non dire del saluto. Il verbo griiden (salutare), in tedesco antico gruozen, ha un'etimologia interessante. La sua origine è tutt'altro che affabile tant'è che vuol dire: "costringere a parlare", "sfidare", "aggredire" ed è probabile che il suono gutturale di gruozen incarni la reazione spontanea alla minaccia che proviene dall'Altro.
Ecco perché, per la cultura dell'Estremo Oriente, una cultura senza sguardo, il saluto è sostituito dall'inchino. La grammatica dell'inchino non sa cosa sia il nominativo e l'accusativo, non conosce né il soggetto, né l'oggetto, né l'attivo, né il passivo. L'io perde ogni aspetto definitivo: così «io sono io» torna ad essere, nell'arco di un attimo, «io sono te».
Byung-Chul Han
Del vuoto. Sulla cultura e filosofia dell'Estremo Oriente
nottetempo, pagg. 144