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Lunedì, 01 Luglio 2024 04:15

Luigi Zoja - «L'Italia migliore non era uno Stato»

Luigi Zoja con «Narrare l'Italia» riflette sul racconto che il Paese fa di sé «Ai vertici mondiali prima dell'unità con la qualità delle città» Luigi Zoja con «Narrare l'Italia» riflette sul racconto che il Paese fa di sé «Ai vertici mondiali prima dell'unità con la qualità delle città»

Siamo italiani, ammesso che sappiamo bene che cosa voglia dire. Perché il modo in cui l'Italia ha raccontato e racconta se stessa è una narrazione parziale, a volte storta, o distorta: sminuisce o tace tratti di cui dovremmo andare fieri; ostenta, deformandoli, quelli che dovremmo rielaborare. Dall'antica Roma, che non era «Italia» ma si espande inglobando gli italici, fino al fascismo, dal Rinascimento, apice dello splendore italiano, al successivo declino, fino all'improvviso approdo allo Stato unitario, quello di Luigi Zoja è un «racconto del racconto» dell'Italia e degli italiani, sorta di psicanalisi di un popolo. «Narrare l'Italia» (Bollati Boringhieri, 567 pagine) è il titolo del suo libro, ricchissimo di spunti storiografici, letterari, antropologici e psicosociali, che scuote credenze consolidate e regala folgoranti illuminazioni.

Zoja è un affermato psicanalista, di vasta cultura. «Nove anni» ha impiegato per questo lavoro «iniziato dopo l'Expo 2015 a Milano», in cui una certa idea di Italia si metteva in vetrina. Fu lo spunto per allargare lo sguardo: a chi siamo, a quali specchi ci affidiamo, a quali tabù ci inchiodiamo. È fresco di Premio Internazionale di Filosofia, su slancio del Festival Filosofi lungo l'Oglio.

Professor Zoja, perché un libro sul racconto dell'Italia?

Perché le narrazioni non decidono la vita dei Paesi, ma condizionano la loro autostima. Questa è una storia delle narrazioni dell'Italia ma anche una storia di ciò che i programmi scolastici non affrontano a sufficienza: penso alle pagine del colonialismo italiano, sia fascista che prefascista. Abbiamo rimosso o mistificato il racconto, ma i gas in Etiopia li abbiamo usati noi, pur avendo firmato la convenzione di Ginevra. Gli altri Paesi hanno un museo delle colonie, che a Parigi hanno trasformato in museo dell'immigrazione. Fanno i conti con la storia. Noi non ne abbiamo uno.

Lei non è uno storico.

E infatti alcuni storici accademici si sentono offesi. Non sono uno storico e su questo non ci sono fraintendimenti nel libro. Di tutto ciò di cui parlo ci sono i riferimenti bibliografici. D'altra parte questo libro completa il lavoro degli storici, offrendo contributi aggiuntivi: da psicanalista cerco quei tratti che creano un «clima psicologico», al di fuori di ogni retorica o intento politico.

Il racconto dell'Italia e degli italiani viaggia troppo sugli stereotipi?

Si dice che l'italiano sia inaffidabile e improvvisatore, ma le cose sono più complesse. Io ho cercato di individuare i «fenomeni lunghi» dell'Italia. E spesso sono fenomeni locali, non «nazionali».

L'Italia dei campanili.

L'Italia è fatta di città e di valli. Si pensi all'azienda Beretta, che fornisce di pistole le polizie di mezzo mondo: è nata e rimane nelle valli bresciane. Forse dimentichiamo che quelle valli erano famose per l'esportazione di armi fin dal Medioevo e nel primo Rinascimento.

A proposito di Rinascimento: fu la nostra età dell'oro?

Senza dubbio. L'apice è quello, quando l'Italia non c'era ancora, non era uno Stato.

Una «espressione geografica».

Lo disse anche Metternich molti anni dopo, ma era così da secoli. Il Rinascimento vide protagoniste le città: Firenze e Venezia erano la culla della creatività e dell'arte, ma anche le città più popolose del mondo, se si pensa che il mondo noto allora era l'Europa. Ed erano le città più ricche, con i redditi più alti.

Che cosa si inceppa dopo il Rinascimento?

La qualità della vita. Lo dice De Rita, il sociologo. Perché la città di media dimensione era la vera qualità italiana, più che Roma o Milano. Produzioni artigianali di qualità e agricoltura di qualità: è questo che poi declina. Ed è questo che si riprenderà dopo, nel Novecento, nel primo miracolo industriale e poi nel secondo, basato sui distretti.

A proposito di contemporaneità: parlando dell'Unità d'Italia lei pone l'accento sulla «piemontesizzazione». Perché?

Lo prendo da molti storici, soprattutto inglesi. Non è anti italianità, semmai è un'analisi critica che dovrebbe fare il bene dell'Italia. L'unificazione fu un'operazione delle classi medio-alte, della borghesia urbana, decisa al di sopra delle masse contadine.

Oggi si torna a parlare di autonomia, con la legge fresca di approvazione...

Il pensiero autonomista è diverso da una zona all'altra, e non è un pensiero anti-italiano. Bastino le provenienze dei garibaldini: gli storici ci dicono che per oltre il 30% venivano dalla Lombardia, ma appena 1'1c% dal Lazio. Là si affidavano al Papa, «che qualcosa da mangiare ci dà».

E l'autonomia oggi?

Non sono un guru né un politico. Dico due cose: mi sembra che maggiore autonomia fosse un atto dovuto fin dal 1861, ma i Savoia non la concessero perché avevano bisogno del pugno di ferro. Ma cos'è questa autonomia fatta oggi «al vertice», in uno scambio politico tra Meloni e Salvini? Per Cattaneo, nell'Ottocento, era l'esigenza di rispettare le culture di base delle popolazioni.

Dopo oltre 160 anni, li «abbiamo fatti gli italiani»?

Se io e lei stiamo discutendo direi di sì. Il mio cognome è veneziano, poi ci si sposta. Oui a Milano c'è una città che è cresciuta anche grazie a tanti italiani giunti dal Sud. Edizioni Bollati Boringhieri Dal Medioevo al Novecento come siamo cambiati Luigi Zoja Psicanalista, sociologo e saggista, ha lavorato a Zurigo e New York. I suoi libri in 16 lingue

Le Video lezioni

Sul nostro canale youtube puoi trovare tutte le video lezioni del nostro Festival di Filosofia.