La posta in gioco è alta: si tratta di riappropriarsi di quel tocco umano necessario per risvegliare il desiderio che c'è dentro di noi. Si tratta ditradurre nella realtà «la possibilità di vivere come singoli e come comunità entro l'attuale configurazione socioeconomica e cognitiva senza ignorarne la deriva in termini di deprivazione umanistica: ossia il suo investimento esclusivo nella produzione, nell'efficienza e nelle prestazione e il suo disinvestimento radicale nel legame sociale». Se, come scrive Bergson, «la gioia annuncia sempre che la vita ha avuto successo», allora essa, sull'onda di quell'élan tritai, essa si configura come la capacità di resistere al terrore, di dare vita a qualcosa contrastando il mortifero alone di nichilismo e di ripetizione del Sé che pervade la «società del rischio» giunta, secondo Smith, all'«inizio della mortificazione globale» o come indica Tillich al «terzo stadio dell'angoscia».
Guanzini, che si avvale, con grande intelligenza di citazioni bibliche senza per questo rinunciare ad un corpo a corpo con testi di autori appartenenti a tradizioni alternative, guida il lettore in una difficile ma possibile ricerca del senso che la sfrenata accelerazione e l'improvviso arresto del mondo determinato dalla pandemia hanno affievolito, se non addirittura spento. Ora, se da un lato si assiste al dilagare delle passioni fredde, dall'altro troviamo il gioco ambivalente delle passioni calde: rabbia, indignazione, rancore. Sembra quasi di sentirsi inghiottiti dalle acque del caos, i cui flutti ci sommergono. Confusi, impazienti, dediti soltanto al proprio sé, si naviga svista. Di nuovo soli, senza fiducia e speranza, travolti da un male sconosciuto che ci ha imposto la reclusione, il distanziamento e l'ulteriore allontanamento dagli altri, abbiamo paura del futuro e accusiamo nel presente i postumi di una «debilitazione claustrale», al punto da poter affermare con Deleuze: «Un po' di possibile, altrimenti soffoco».
Ora, se la filosofia non si può ridurre alla semplice contemplazione, ma la si intende come una forma del fare, un'attività di creazione, allora i concetti, come insegna Deleuze, non sono idee astratte, ma categorie viventi. Tra queste, Spinoza «il principe dei filosofi» -, ne ha colta una essenziale: è la gioia che si manifesta «come un lampo improvviso e potente nella notte nera». Gioia e tristezza sono per Spinoza gli affetti primari, che indicano un atteggiamento, una postura psichica capace di assumere su di sé il peso della contraddizione o, al contrario, di subirla. Se l'essere umano è conatus, definito dalla sua capacità di desiderare, di agire e di «dire sì» alla vita, la tristitia corrisponde al grado più basso della nostra potenza, ove paura, incertezza, precarietà, immobilismo regnano sovrani.
Perché gli uomini lungo le epoche hanno preferito la religione delle tenebre rispettoaduna fede nella gioia e nel Vangelo della festa? E ancora, incalza Guanzini davvero la gioia può costituire quel katéchon, quel potere che frena l'opacità, la diffusa forma di assopimento del sentire e la sonnolenza come antidoto all'angoscia crescente? Gesù, che resta solo nella notte del Getsemani, non invita forse a mantenere aperto il tempo, a far fruttare i propri talenti poiché «il peccato contro lo spirito è imperdonabile» (Mt12,31-32)? Essere vivi non significa sopravvivere, ma realizzare il passaggio dallavita come condizione alla vita come vocazione (Beruf), come apertura e ascolto dell'appello dell'Altro. Come esperienza della gioia «poiché chi trattiene gelosamente la propria vita, la perde, mentre chi crede nella sua potenza, la moltiplica».
Filosofia della gioia. Una cura per le malinconie del presente
Isabella Guanzini, Ponte alle Grazie