Lungo i secoli, nel pensiero occidentale è andata prevalendo l'idea che la vita nel tempo rappresenterebbe una condizione inferiore e manchevole, propria degli esseri finiti, rispetto all'assoluta immutabilità del divino. In polemica con questa tradizione, Emmanuel Lévinas (1906 - 1995) proponeva invece di concepire il tempo «non come una degradazione dell'eternità, ma come relazione con ciò che, di per sé inassimilabile, assolutamente altro, non si lascerebbe assimilare dall'esperienza, o con ciò che, di per sé infinito, non si lascerebbe comprendere».
«Il tempo e l'altro», che raccoglie i testi di quattro conferenze tenute nel 1946-47 a Parigi dal grande filosofo francolituano, è stato recentemente ripubblicato nella traduzione italiana di Francesco Paolo Ciglia da Mimesis (pp. 164, 12 euro, ebook a 8,99 euro): questa nuova edizione è a cura della presidente della Fondazione Filosofi lungo l'Oglio, Francesca Nodari, che ha anche firmato un'ampia p ostfazione. Ne «Il tempo e l'altro» vengono anticipati temi che accompagneranno costantemente la ricerca lévinasiana: in particolare, la tesi che il rapporto con l'Altro con un'alterità non addomesticata, davvero in grado di «forare le pareti» dell'io e di vincere la sua naturale tendenza a ripiegarsi su se stesso.
Oltre il «commercio» di ogni giorno con gli oggetti presenti nel mondo, si danno infatti degli eventi in senso proprio, per cui qualcosa davvero giunge a noi dal «di fuori», come un ferro incandescente nella carne, senza sottostare alle nostre pretese di pianificazione e controllo. La morte («un evento che il soggetto non è in grado di dominare, un evento in rapporto al quale il soggetto non è più soggetto»), l'accendersi dell'eros (contrassegnato originariamente al di là del mito romantico dell'amore fusionale da una «dualità insuperabile degli esseri»), la paternità («né le categorie del potere, né quelle dell'avere sono in grado di designare la relazione col figlio»): tutti questi aspetti dell'esperienza umana, articolandosi nel tempo, testimoniano di una «relazione o religione afferma ancora Lévinas che non è strutturata in termini di sapere»; mostrano cioè la possibilità per l'io di superare l'inganno di una pulsione egemonica che in realtà conduce alla disperazione.
Nel suo scritto a corredo del volume, sottolineando l'attualità delle questioni sollevate da Emmanuel Lévinas, Francesca Nodari collega tra l'altro il richiamo del filosofo una «fuga dalla carcerazione del proprio sé» alla «condizione di solitudine e di abbandono che abbiamo esperito durante il confinamento dovuto alla pandemia: forse che l'io ipertrofico del soggetto contemporaneo, già profondamente pervaso da un senso di preoccupante indifferenza nei confronti dell'altro, da un egocentrismo così esasperato da pervenire alla privatizzazione della propria vita, sia stato attraversato in questo momento di prova, fino a poco tempo fa inimmaginabile, da un sussulto di umanità?».