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Domenica, 24 Aprile 2022 23:32

NOI, SOGNATORI TRA PROFEZIA E INTERPRETAZIONE

«Siamo fatti della stessa stoffa (stuff) dei sogni», come sosteneva Shakespeare o «i sogni hanno appena più senso della forma delle nuvole o dei disegni sulle ali delle farfalle» come notava Callois? Si potrebbe affermare che l'articolato saggio di Umberto Curi sia teso tra questi due estremi riuscendo ad offrire al lettore un'indagine compiuta e approfondita sull'onirocritica.

Già nel racconto del sogno di Penelope, la quale narra di venti oche uscite dall'acqua che in casa le beccano il grano e che sono sgozzate da un'aquila che piomba dal cielo queste oche, come le rivelerà Odisseo travestito da mendico, non fanno segno ad altro che ai Proci che saranno da lui vinti si assiste al darsi delle due dimensioni oniriche fondamentali. La prima è la valenza profetica rispetto a eventi futuri, la seconda è il rapporto intrattenuto dal sogno con la verità, nel senso di esserne veicolo o di favorirne l'occultamento. E sempre a Penelope, la saggia, per la quale i sogni sono «ambigui e inspiegabili» tocca introdurre una digressione volta a motivare la sua diffidenza nei confronti delle visite notturne. Ella parla di due porte, l'una d'avorio, l'altra di corno, attraverso le quali passano rispettivamente i sogni ingannevoli e quelli veritieri. Un riconoscimento dell'ambivalenza dei sogni che sarà ripresa in forma logico-dimostrativa, anziché metaforica, da Platone.

Di sogni si parla nei poemi omerici, in alcune liriche da Stesicoro a Pindaro e in 7 tra i 33 drammi attribuiti ai maggiori tragici. Basti richiamare i Persiani di Eschilo che ha molte somiglianze con il brano omerico: la protagonista è una donna (in questo caso, Atossa), è una regina, infine ciò a cui si assiste, non è un sogno, ma il racconto del medesimo. Chi spiega è Odisseo in Omero, il Coro dei fedeli in Eschilo. Nei due episodi compare un'aquila con funzioni diverse: in Omero, sterminando le oche, si realizza la vendetta di Odisseo; mentre nella tragedia si presenta come controfigura di Serse, macchiatosi di hfibris, inseguito da un rapace che gli spiuma il corpo con i suoi artigli.

L'analisi di Curi - che rifacendosi al Titano ribelle Prometeo ricorda come il gran dono offerto agli uomini non sia consistito, soltanto, nel furto sacrilego del fuoco bensì nel dono dell'elpís, che definisce nella sua peculiarità la dimensione umana: gli uomini, sono brotói, mortali, ma provvisti di speranza e non più mere «forme di sogno» - prosegue passando in rassegna i maggiori pensatori dell'onirocritica da Platone ad Aristotele, da Artemidoro di Daldi, vissuto nel II sec. d.C., considerato il fondatore della scienza dell'interpretazione dei sogni con la sua Oneirokritikei, trattato preceduto dal Somnium Scipionis contenuto nel De Repubblica di Cicerone fino a Sinesio di Cirene, per il quale i sogni sono «ricolmi di sapienza» ma sono «privi di perspicuità». Curi mostra, per un verso, la distanza tra la lettura platonica del sogno che consiste nella «persistenza di un'ineliminabile duplicità» quale carattere peculiare del fatto onirico - e quella dello stagirita che conclude come sia «chiaro che il sognare è proprio della parte percettiva, ma di essa in quanto immaginativa»; per l'altro, il fatto che la contrapposizione tra míthos e lógos avvenuta tra il VII e il IV sec. a. C. abbia condotto a scavare nell'universo mentale dei greci una molteplicità di fratture e di distanze. Se il lógos è la parola «nel senso di ciò su cui si è riflettuto e che può esser usato per convincere», mfthos, che inizialmente «indicava ciò che è effettivamente e storicamente vero», verrà impiegato da Erodoto per indicare «storie che sono inattendibili», mentre Tucidide distinguerà tra «la storia (historia) da lui narrata» e tó mythódes «la narrazione non necessariamente vera». Il culmine verrà toccato da Platone, che introdurrà la netta distinzione tra mfthoi, «bugie», e lógoi, «discorsi razionalmente dimostrabili».

Come dire, l'onirocritica si snoda lungo quasi due millenni partendo dalle fonti omeriche per arrivare alla svolta occorsa nel XX secolo con il Traumdeutung di Freud (la cui data effettiva di pubblicazione è il 4 novembre 1899, ma per volontà del suo autore il frontespizio porta la data del 1900 quasi a riconoscere il carattere epocale del suo lavoro). Il padre della psicoanalisi scriveva nella Prefazione alla III edizione inglese e americana che «intuizioni come questa càpitano, se càpitano, una sola volta nella vita». La sua tesi centrale è che il contenuto onirico manifesto, ovvero il sogno che ricordiamo al risveglio, sia da considerarsi un contenuto abbreviato del contenuto onirico latente. L'interpretazione consiste nel percorrere a ritroso il processo che ha trasformato i pensieri latenti in contenuto manifesto.

C'è, tuttavia, avverte Curi, un altro modo ancora di accostarsi ai sogni segnato dalla volontà di proteggerne l'integrità, sottraendoli alla manipolazione e affrancandoli da qualsiasi Arbeit capace di offuscarne l'identità. Questa linea interpretativa che va da Schnitzler a Benjamin passando per Adorno e Fellini, introduce due novità: la verità di cui i sogni sono rivelazione può accadere soltanto se non sono ricondotti al lógos. La seconda conseguenza è che essi implicano non già la dimensione temporale del futuro, ma quella del passato, essendo «messaggeri di memoria».

Nei Minima moralia, Adorno scrive che occorre «bandire il sogno senza tradirlo». Se è così, è possibile parlare del sogno, senza con ciò sottomettersi al dominio della veglia? Il filosofo non potrebbe, in virtù dell'io sovrano, che rispondere «no», ma il poeta, lo scrittore, il musicista, il pittore, lo sceneggiatore «non direbbero no ammonisce Derrida ma sì, forse, talvolta».


Fedeli al sogno. La sostanza onirica da Omero a Derrida
Umberto Curi
Bollati Boringhieri



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