Recensione a Giovanni Stanghellini, Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, Feltrinelli, Milano 2020.
Quali e quanti sono i modi attraverso i quali facciamo esperienza del nostro corpo? Cosa resta del rapporto tra carne, corpo e mondo in una «società oculocentrica»? Che cosa accade se l’essere visto conferisce sostanza al Sé al punto da sostituirsi allo stesso sentire?
Sono questi, soltanto, alcuni degli interrogativi che attraversano il brillante saggio dello psichiatra e psicoterapeuta, Giovanni Stanghellini, Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 152, 18 €. Il filo rosso che accompagna l’attenta e accurata disamina dell’esternalizzazione del nostro corpo, poggia su una constatazione molto chiara: nella nostra contemporaneità è in atto una scissione tra corpo e sé, una sorta di deriva del corpo proprio in quanto unità psicofisica.
Ciò che viene messo in discussione è il bilanciamento delle due modalità attraverso le quali esperiamo il nostro corpo: per un verso, possiamo averne un’esperienza diretta sentendolo – questo sentire senza mediazione si chiama cenestesi – per l’altro, possiamo farne esperienza guardandolo attraverso una fotografia o uno specchio. La proporzione ottico-cenestesica che ne deriva genera quell’equilibrio tra sentirsi tacitamente radicati nel proprio Sé e nel proprio mondo. Esiste una terza modalità di esperire il corpo che avviene attraverso lo sguardo dell’altro: solo quando mi sento guardato, riesco a sentirmi.
Per illustrare quest’ultima modalità l’autore analizza due fenomeni quali l’anoressia mentale e il selfie, che sono la prova di una metamorfosi sociale della coscienza di sé: «lo sguardo dell’altro diventa la protesi necessaria per potersi sentire».
L’autore ci pone di fronte ad una tesi: il depotenziamento cenestesico, ad un’antitesi: la mimesi ottica del Sé che prende corpo attraverso lo sguardo dell’altro e i sintomi: selfie/anoressia. Ci avverte, richiamando il monito di Bauman circa il prendere posizione rispetto al nostro corpo nella società dell’incertezza, che stiamo assistendo ad una dissolvenza della carne delegando il sapere sul nostro corpo alla biotecnologia, alla chirurgia e alla medicina estetiche «che fanno della Bildung, cioè della formazione del Sé, un esercizio di body building».
Oggi il corpo, ben lungi dall’essere posto come un indiscernibile rispetto alla persona, è mero attributo, oggetto manipolabile, oggetto tra gli oggetti di «una medicina d’organo», afflitto «dalla perdita di un legame ontologico forte come l’aggancio al proprio Sé incarnato», «livellato, omologato, spersonalizzato» come nota Pasolini – denunciando il darsi di un «cataclisma antropologico»– nei suoi Scritti corsari.
Ora se è vero come è vero che la carne è «il fondo su cui poggia il nostro Sé» ed è insieme, come mostra Merleau-Ponty la nozione che fa segno dell’iscrizione del Sé nel mondo, mentre il corpo non è altro che l’immagine visibile della carne «soggetta all’analisi e al dettato altrui», ne viene che delle quattro figure che ci rivelano la fenomenologia del corpo: il corpo-che-sono, esperienza preriflessiva e immediata di se stessi; il corpo vissuto, indice di una consapevolezza noetica, il corpo oggetto, «che è la carne quando si ribalta nella sua esteriorità: il ‘corpo-che-ho’», è proprio la quarta ovvero: essere-un-corpo-per-l’altro quella che ci mostra il venir meno della coscienza patica e della cenestesia ossia il fatto che «sentirsi oggetto dello sguardo degli altri diviene condizione necessaria per sentirsi». Di più per essere. Il sé divenuto sessile, ridotto allo stato liquido, eteropercepito, è un esserci che ha fame d’essere, suddito della sovranità dello sguardo, un «essere situato» che «è diventato compito da svolgere istante per istante». Di qui l’inevitabile riduzione del Leib a Körper, la pietrificazione del Sé di cui narra Sartre in pagine memorabili de L’essere e il nulla offrendone un’immagine plastica nell’opera Huis clos ove «ognuno assume l’altro come superficie riflettente» poiché in questo inferno «l’altro rappresenta l’unica possibilità di sentirsi riconosciuti».
È proprio ciò che avviene nel mondo di Ana ove la sovradeterminazione del corpo visibile e il depotenziamento cenestesico mettono capo ad una riterritorializzazione del Sé, la cui forma più eclatante è «l’adesione alla religione del digiuno». Ora, anche il selfie «è visto come un tentativo di ricorporealizzarsi in ragione dell’evanescenza della carne». E se nel mondo di Ana «lo sguardo altrui è la macchina-là-fuori che supplisce al default della macchina-qua-dentro», nella pratica del selfie – che non è nient’altro che «l’esposizione del corpo online» che ha come unità di misura i like – «la fotocamera è una macchina che rivolge dall’esterno uno sguardo sul soggetto per ovviare a una mancanza di ‘percezione’ dall’interno». Nell’un caso come nell’altro vale il motto: videor, ergo sum. Sono visto dunque sono. «Nel mondo di Ana e in quello del selfie – semplice snapshot che dev’essere immediatamente postato – il volto dell’altro è assente». In entrambe le condizioni, l’una dal profilo tragico, l’altra dal carattere più grottesco la posta in gioco è la medesima: «la risposta alla domanda ‘chi sono?’ è nello sguardo dell’altro». Forse che la passione per il visibile si possa configurare come la declinazione contemporanea di una passione antica: quella per l’identità?