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Lunedì, 09 Marzo 2020 05:04

Dove nasce la convinzione che si stava meglio prima

Già Bauman ci aveva avvertito: il nostro tempo è attraversato da un'utopia rivolta all'indietro: «un simile dietrofront trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e di aspettative legittime, in sede di incubi» mentre Augé, riflettendo su Le nuove paure che attanagliano il nostro presente si chiede se queste non siano diventate una sorta di retaggio che rende tutto abitudine. Il sentire del soggetto della società planetaria sembra essere reso molto bene da questa espressione: «Stress con contorno di angoscia: è questo il menù del giorno».

A ben vedere intorno a noi sembra crescere il malcontento, lo scoramento. Tira forte l'aria del disorientamento e dell'incertezza. Le passioni tristi trionfano e le relazioni umane sembrano correre, come di nuovo colse acutamente Bauman in Stranieri alle porte, il grosso rischio di essere attraversate dalla sospensione del giudizio morale perché ciò che conta, davvero, è l'«efficienza nel "dare risultati"». Un quadro questo che viene colto in tutta la sua complessità da Massimiliano Valerli, direttore generale del Censis con studi di filosofia alle spalle, nel suo libro La notte di un'epoca.

Un'analisi a tutto tondo su un presente segnato dal «travaglio del salto d'epoca» che ha hegelianamente la forza di apprendere il proprio tempo con il pensiero. Di individuare categorie quali quella di «sovranismo psichico» «che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio», di «deflazione delle aspettative», fino ad scorgere nel delinearsi di «una nuova antropologia dell'insicurezza» l'acuirsi vorticoso del rancore proprio di coloro che «sentono di aver subito un torto o pensano di non vedersi riconosciuto un merito».

Desolazione, rabbia, risentimento, nostalgia dei tempi del miracolo italiano tra il 1960 e il 1970 il Pil cresceva vertiginosamente (più 85%) con un tasso di incremento annuo di oltre 6 punti percentuali e il progressivo incremento della «cetomedizzazione» faceva sì che i figli delle famiglie operaie e contadine si trovassero insieme ai figli della borghesia paura della crisi, paura per la propria incolumità, paura dell'altro se è vero, come è vero, che il 75% degli italiani è convinto che gli immigrati facciano aumentare la criminalità e che il 63% li ritiene un peso per il welfare.

Rassegnati a «una crescita da zero virgola», con un Pil stagnante, i consumi che non ripartono, l'ascensore sociale bloccato, con una denatalità e una senilizzazione in costante aumento, non solo abbiamo perso la cultura del rischio, ma abbiamo trasformato la speranza in «letizia incostante», espressione di passività quanto la paura, come sosteneva Spinoza nella sua Etica. L'immaginario collettivo è abitato da sogni infranti e in luogo del posto fisso, della casa di proprietà, della Lambretta, oggi, secondo il Censis, i social network salgono al primo posto per rilevanza, seguiti da smartphone, selfie e cura del corpo relegando all'ultimo posto il titolo di studio.

Un quadro allarmante che ci fa toccare con mano il naufragio «delle grandi narrazioni post-ideologiche: l'idea di una nuova patria unita senza più frontiere, i benefici per tutti portati dalla globalizzazione, il potere taumaturgico della rivoluzione digitale come leva universale per diffondere conoscenza e democrazia». Al contrario si assiste a un pericoloso rigurgito di sovranismo e populismo, a un innalzamento di muri e barriere tra «forgotten people», respingimenti e cadaveri senza identità restituiti dalle onde sulle spiagge o inghiottiti dal mare: «l'Unhcr ha calcolato in quasi 18mila i morti e i dispersi nel Mediterraneo negli ultimi cinque anni».

Per non dire del mito tecnologico che ha fatto emergere fake-news, post-verità ovvero la dissociazione tra conoscenza ed esperienza come cifra della nostra epoca. Di qui il passaggio all'era biomediatica dove l'io ipertrofico è al tempo stesso produttore e oggetto di contenuti, dedito a pratiche di life-logging e di self Cracking così come degli altri strumenti della disintermediazione digitale dove «l'unico vero divo» è Internet al punto che persino i governanti, nel bel mezzo della crisi della rappresentanza, puntano sulla «telepresenza permanente».

Cosa fare dinnanzi ad un simile scenario? L'autore ci invita a farci accompagnare dalla filosofia. Per interrompere «la liturgia del dibattito corrente», non solo si può, ma si deve tornare ai classici individuando in tre filosofi, «tre diavoli sognanti», la fonte da cui attingere «per non accontentarci del cattivo presente».

Cartesio il filosofo della ragione per eccellenza che, di contro ad una certa tradizione che riteneva che le passioni offuscano le menti, sosteneva che le passioni «sono tutte buone»; Hegel che ha indicato, tracciandone la fenomenologia, il percorso del superamento della «coscienza infelice» e Bloch, un filosofo oggi dimenticato che ha colto nel concetto di speranza «il fondamento ontologico dell'esistenza», «l'estasi del camminare eretti» perché «grande è la ricchezza di un'epoca in agonia» come egli scrive, nel 1935, in Eredità di questo tempo.



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