Emanuele Severino è morto venerdì a Brescia Si è saputo solo ieri, a funerali avvenuti, ma che importa questo dettaglio, questo apparente scarto temporale se èvero, come diceva l'antico filosofo Eraclito, che «attendono gli uomini, quando siano morti, cose che essi non sperano né suppongono», perché commentava Severino -, «già da vivi, e da sempre, sono ciò che non sperano e non suppongono di essere. L'immenso da cui sono attesi è la Gloria». Per il filosofo «noi siamo dei re che credono di essere dei mendicanti», perché l'uomo stesso, e il suo pensiero, è «l'apparire della verità assoluta», ovvero che il tempo è solo una illusione.
Qualche anno fa aveva scritto una autobiografia bellissima, struggente, soprattutto nelle pagine in cui racconta l'incontro con la moglie Esterina. L'aveva intitolata «Il mio ricordo degli eterni» (Rizzoli): poteva sembrare una digressione, quasi un cedimento al regno delle ombre dei sentimenti più umani, di fronte ai lucidi bastioni del suo solidissimo pensiero, e invece in quel suo ripercorrere - anche da letterato di qualità antica - la sua vita privata il filosofo non faceva che ribadire che quella non era che l'altra faccia, sebbene rimasta più in ombra, della sua «fede» razionale (certo lui non l'avrebbe definita così) sempre ribadita: che l'Essere è e non può non essere.
Aveva compiuto 90 anni il 26 febbraio dell'anno scorso. Tutta Italia lo aveva celebrato, con il leggero imbarazzo che non si può non provare di fronte a un uomo che proclamava, contro ogni pensiero corrente, non la sua lucida, avanzata maturità ma la sua (e la nostra) indefettibile eternità.
Per Severino l'Occidente vive nel nichilismo, cioè nella convinzione che le cose, tutte le cose escano dal nulla e vi facciano ritorno. Nei numerosi libri pubblicati sin dagli anni '50 ha insistito invece che tutto, anche i dettagli dellavita che scorre provvisoriamente davanti ai nostri occhi, è eterno per necessità, non svanirà mai in quel vuoto al quale la nostra falsa prospettiva lo immagina avviato: la convinzione che l'Essere possa svanire per lui, come per Parmenide, è la «follia estrema» del nostro pensiero decadente, che iniziò a discendere la sua pericolosa china già con Platone.
È stato un pensiero radicale il suo, tra i pochissimi rimasti in piedi, in postura eretta, di fronte al nichilismo che da un paio di secoli ha invaso prima il terreno della filosofia occidentale, poi le nostre prassi. Lui è rimasto lì, nella sua Brescia, come un Benedetti Michelangeli dall'orecchio educato alla nota più pura, essenziale, perfetta del pensare, nella sua «regale solitudine» - pur sempre civilmente molto socievole, e spesso invitata a far risuonare la sua voce inaudita in convegni e festival in cui si proclamava l'esatto contrario; maestro di un pensiero aperto ma non dialogante con i suoi opposti, per il quale i suoi contemporanei finivano per mostrare una malcelata nostalgia.
Si era visto al convegno di tre giorni che a giugno a Brescia gli avevano dedicato i suoi allievi Ines Testoni e Giulio Goggi, chiamando a raccolta alcuni dei nomi più in vista della filosofia italiana, da Carlo Sini a Michele Lenoci e Massimo Marassi, da Tarca a Mazzarella, Donà, Tagliapietra. Era stata anche una curiosa riconciliazione conl'ambiente dell'Università Cattolica, dopo il conflitto della fine degli anni'60, quando la Congregazione per la Dottrina della fede vaticana avviò un processo destinato a dichiarare la sua filosofia incompatibile con la fede cristiana Cosa che Severino considerava assolutamente corretta, tanto che il suo addio alle aule della Cattolica, dove si era formato con l'amato maestro Gustavo Bontadini (da non perdere, nell'autobiografia, il capitolo in cui Severino racconta i loro ultimi incontri) e il suo trasferimento alla Ca' Foscari di Venezia non ebbe mai i toni del rancore: «Sono il primo io a riconoscere diceva che in una università cattolica i professori devono sottostare a una prospettiva per la quale l'università è cattolica quando ho incominciato a maturare il mio modo di pensare, ho capito subito che avrei dovuto lasciare quell'università».
Quel giorno di giugno, a Brescia, le massime autorità della Cattolica finirono per tessere, pur nella distanza teoretica, elogi quasi commoventi di questo pensatore così inattuale in un'epoca in cui persino in chiesa si sente di rado parlare dell'Eterno. Severino è considerato oggi uno dei più grandi filosofi continentali del Novecento. Oltre che cercando come nessuno di capire e di riattivare il pensiero «assoluto» di Parmenide, ha letto in maniera magistrale l'amatissimo Leopardi (nella sua casa brescianaun'intera stanza è dedicata a lui), che considerava non solo uno straordinario poeta ma uno dei pochi pensatori italiani che meritino considerazione («Cosa arcana e stupenda», Bur).
Di particolare rilievo anche gli studi e qui ha mostrato il suo lato pienamente contemporaneo sulla tecnica, forza destinata a dominare il mondo e alla quale si assoggettano via via le grandi forze dellatradizione: umanesimo, capitalismo, socialismo, e persino il cristianesimo. Puntuali, in questo senso, sono state le sue letture e le sue denunce negli articoli scritti per le pagine culturali del «Corriere della Sera». Critica la metafisica classica Severino, in cui vede «la matrice dell'alienazione». Ma ne ha anche per la scienza, per il suo «fallibilismo» e la sua presunzione metodologica: «Il pensare è il logo all'interno del quale accade tutto (vorrei ricordarlo anche agli scienziati). Se non c'è apertura di pensiero, non si presenta nulla: né l'azione, né l'arte, né la scienza, né la filosofia, né i vari tipi di prassi».
E il pensiero non ha niente di «progressista», perché non «avanza» mai: «Se la Verità è disse concludendo quel pomeriggio a Brescia, criticando la mistica, tanto diffusa, della "ricerca" -, e la Verità è, allora essa non è un punto di arrivo. Non si arriva alla Verità, ma è un punto di partenza la Verità è ordinariamente manifesta nel mondo, in ogni uomo, anche nell'uomo che non sa nulla della Verità, né della filosofia. Chiunque ha davanti a sé la Verità, velata da nubi». Detto in una parola, Severino ha vissuto «testimoniando il destino» come dice il titolo del suo ultimo saggio pubblicato (Adelphi): ciò che sta fermo, mai eroso dalle nostre divergenti prospettive e opinioni.