Gesto automatico o voluto, percezione aptica che fa da ponte tra noi e la realtà, il toccare è essenziale nel nostro abitare il mondo. Ed è essenziale anche riguardo alla conoscenza, perché è importante che le persone e le cose ci tocchino affinché possiamo e vogliamo conoscerle. Ci tocchino secondo alcuni aspetti della ricchissima polisemia del termine: perché ci coinvolgono (ci riguardano da vicino), perché ci interessano (ci colpiscono e ci affascinano) e perché coinvolgono (investono e sfiorano) i nostri sensi e la nostra mente.
Diciamo che il toccare è indispensabile all'esperienza e alla conoscenza e alla relazione affettiva, eppure ci rendiamo tutti conto anche senza essere degli specialisti che oggi tocchiamo sempre meno sia le cose sia le persone. Che cosa ciò può significare? Di fatto tasti e schermi sono le cose con le quali entriamo maggiormente in contatto, con la punta delle dita e con lo sguardo, e che sostituiscono oggetti artificiali e naturali, toccati a loro volta da macchinari, strumenti, attrezzi e apparati. Tocchiamo o sfioriamo sempre più tasti – e presto non toccheremo più nemmeno quelli – e sempre meno tocchiamo gli oggetti, e poco tocchiamo le persone, quasi per nulla le persone anziane, i vecchi, delegando questo gesto alle persone che se ne prendono cura a pagamento. Insomma usiamo sempre meno le mani anche se attiviamo ogni momento le punte dei polpastrelli. Mettiamo dei media tra noi e le cose, le percepiamo a distanza e tramite intermediazione di schermi, come se toccare con mano la realtà fosse passato di moda, non più importante.
Sapere è toccare
Eppure sappiamo bene che Aristotele riteneva il tatto il più filosofico dei sensi, in quanto esso è prioritario ai pragmata (le cose, gli oggetti) [De anima 422-423]; il tatto è più generale e più intimamente legato loro della vista. Attraverso il tatto infatti la psyché individua le cose come identiche a sé e toccando il particolare identifica l'universale. Del resto, tutta la filosofia, nella sua storia, ha cercato di spiegare la natura del pensare con qualche analogia tra il processo del pensare e la percezione sensoriale. Anche se tali analogie non sono rese esplicite, è possibile inferire dai termini e concetti usati dai filosofi che ogni loro tentativo di trascendere il corpo è condizionato in un modo o nell'altro dal suo inizio corporeo (Rosen 1961, p. 127). Lo mette ben in evidenza proprio il filosofo del corpo e del toccare per eccellenza, Jean-Luc Nancy. Per Nancy l'esistenza è esposizione corporea, non c'è altra evidenza che quella del corpo. Il nostro esistere è il toccare: «noi ci tocchiamo in quanto esistiamo. Il nostro toccare è ciò che ci rende noi» (Nancy, Essere singolare plurale, p. 22). Il senso principe della filosofia è sempre stato la vista. Ma la vista non potrebbe essere una forma di tatto, potremmo chiederci insieme a Aristotele e a Nancy, se alla fine il problema è di come l'incorporeo del discorso e dell'immagine tocca il corporeo del corpo e delle cose? Se il problema è di come la res cogitans, la mente cartesiana, tocca la res extensa, la materia? Ma se la mente, la res cogitans, fosse anch'essa sì cogitans ma anche extensa, come si chiede Freud in un appunto del 1938, aggiungendo subito dopo «ich weiß nicht davon», non ne so niente? Se si immaginasse la spazialità come proiezione dell'estensione dell'apparato psichico invece che, kantianamente, condizione apriori del nostro apparato psichico?
Insomma il toccare che a livello di vita quotidiana stiamo estromettendo dalle nostre vite pare riemergere da altri aspetti dell'esistenza, in particolare, paradossalmente, nel momento del pensare, del conoscere.
Il pensiero impertinente
Se tutto ciò può sembrare bizzarro, e ancora più bizzarro potrà apparire quel che dirò in seguito, in particolare con la storia del filo di lana, me ne giustificherò dicendo che io, sulla scorta di altri autori, pratico uno stile di pensiero impertinente. Impertinente in quanto non pertiene, non è veritativo, non è risultato di un adeguamento della cosa con l'intelletto anzi viola palesemente tale relazione. E impertinente anche perché un po' insolente e maleducato, oltre che bugiardello (Cohen 1966, p. 114). Il pensiero impertinente contribuisce a quella forma di comprensione del mondo che qualcuno ha chiamato, in altri contesti, il suo reincantamento.
Lo metterò in pratica in rapporto alla declinazione che intendo dare al toccare, chiedendomi se anche il leggere, lo studiare, l'apprendere, il pensare, il filosofare, siano una forma silenziosa di tatto e contatto (forse persino amoroso); domandandomi se sottolineando questo aspetto incantato e quasi magico possiamo recuperare dalla finestra quel tatto che stiamo buttando fuori dalla porta. Mi soffermo dunque sull'importanza della prossimità fisica per quanto riguarda sia la conoscenza, sia l'amore (affetto, eros, etc.) sulla base di alcuni dialoghi platonici, il Teage, il Simposio, il Fedro.
Il Teage o Teagete, è un dialogo forse spurio. Anzi, è considerato spurio proprio per la stravagante affermazione che stiamo per esporre. È il passo in cui il giovane Aristide dice al maestro Socrate che sente di progredire nella sapienza semplicemente standogli accanto, nella stessa stanza, ma soprattutto quando siede vicino a lui, standogli vicino e toccandolo [130d, e].
«Ti dirò, Socrate» rispose «una cosa incredibile, per gli dei, ma vera! Io, infatti... progredivo quando ero insieme a te, anche se solo ero nella stessa casa, ma non nella stessa stanza; di più, però, quando ero nella stessa stanza, e molto di più, mi sembrava, quando, stando nella stessa stanza, guardavo verso di te mentre parlavi, più di quanto guardavo da un'altra parte; ma soprattutto e in sommo grado progredivo quando sedevo proprio vicino a te, standoti accanto e toccandoti» (kaì haptómenos, Teage 1997).
Di questo strano procedimento didattico in base al quale l'influenza di Socrate verrebbe convogliata dalla prossimità fisica e dal contatto, alcuni autori disincantati e disincantanti hanno criticato l'aspetto magico, quasi taumaturgico, che presupporrebbe l'esistenza di un misterioso fluido magnetico: il potere di influenza di Socrate – ci spiegano in maniera disincantata - sarebbe legato allo stimolo intellettuale che proviene dalla sua frequentazione e non c'è nulla di misterioso in quel passaggio di saggezza. Noi che invece stiamo compiendo l'operazione impertinente della Wiederverzauberung o reincantamento - che nulla ha a che fare con riti magici o spiritici e contesti esoterici e nemmeno trascendenti! - la pensiamo diversamente.
Ma andiamo avanti con un altro dialogo, il dialogo sull'amore per eccellenza, il Simposio. All'inizio del testo, del quale probabilmente il passo del Teage è una reminiscenza, Socrate si presenta alla cena indetta da Agatone in ritardo perché se ne era stato immobile nel vestibolo a meditare, e al suo ingresso il padrone di casa lo interpella così:
«Sdraiati qui, Socrate, presso di me, in modo che, toccando te, anch'io goda della recondita sapienza che si è accostata a te nel vestibolo...»
Socrate si sedette e disse: «Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse fatta in modo da scorrere, se ci tocchiamo l'un l'altro, da chi è più pieno a chi è più vuoto, così come nelle coppe l'acqua scorre attraverso il filo di lana dalla più piena alla più vuota [175d]».
Il passo è molto interessante perché evoca l'idea che la comunicazione intellettuale, l'ispirazione persino, possa essere suscitata da contatto fisico. Anche in questo caso i commentatori disincantati rovinano il bello della storia spiegando che Socrate sta ironizzando, e Socrate stesso di fatto incoraggia questa lettura, suggerendo che si tratti di una mera analogia. Nonostante Platone noi proviamo a non scoraggiarci e ad applicare il metodo impertinente del reincantamento. E proviamo a ripetere a nostra volta l'esperimento. Eccolo qua. Basta prendere due coppe, due bicchieri, uno vuoto e uno pieno d'acqua, metterli su un piano e immergere in ognuno dei bicchieri i due capi di un filo di lana lungo pochi centimetri. Lentamente il bicchiere pieno inizia a svuotarsi e l'altro a riempirsi, finché dopo qualche tempo l'acqua raggiunge lo stesso livello nei due recipienti. Si tratterà, detto nel linguaggio disincantato, di un fenomeno di capillarità dovuto alle interazioni fra le molecole di un liquido e un solido sulla loro superficie di separazione. Detto nel linguaggio reincantato si tratterà di una sorta di contatto amoroso, che non comporta in questo caso una componente erotica.
Il tocco erotico
Essa è invece presente in un altro passo del Simposio, quello in cui Diotima afferma che:
«toccando l'oggetto bello – e stando in sua compagnia – (l'uomo di valore) partorisce e genera le cose di cui era gravido da lungo tempo» [209c].
Siamo nella parte in cui Socrate riferisce le parole di Diotima di Mantinea, donna sapiente che sa quanto alcuni uomini siano bramosi di fama e gloria immortale, per la quale sono disposti a soffrire fatiche e pericoli. È il tipo di uomini che, preferendo creare idee e opere dell'ingegno piuttosto che procreare figli, va in giro a «cercare l'oggetto bello in cui potrà generare». Trovatolo, lo tocca e stando in sua compagnia genera molte e belle opere. Qui abbiamo una componente erotica come impulso a quella generativa (di idee) che non è presente né nella scena del Teage né in quella del filo di lana.
Il filo di lana
Ma riprendiamo proprio quel filo e quella analogia e leggiamola con maggior attenzione:
“Sarebbe bello, o Agatone, se la sapienza fosse tale, che potesse scorrere da chi ne ha di più a chi ne ha di meno, solo che ci si attaccasse l'uno all'altro, come fa l'acqua nelle tazze, che dalla più piena passa alla meno piena a traverso un bioccolo di lana” etc.
Platone scrive: “dià toû 'eríou”. 'Erion, ou (to) sta per lana, pelo, peluria. È forma attica tardiva di eiros, n., che è la lana per Omero. Ma la forma ion, se non andiamo errate, è anche, nel greco antico, un suffisso per il diminutivo. Se noi lo applicassimo a 'Erōs, ōtos (o), non avremmo ancora 'erion’, questa volta nel senso di piccolo amore? Che attraverso quel filo insieme alla sapienza, si trasmetta anche l'amore? Che la sapienza si trasmetta attraverso l'amore? Che questo sia “il filo di lana dell'amore e della sapienza”?
Noi non sentiamo più l'assonanza e il gioco di parole, ma Platone doveva avvertirlo ancora.
L'idea che vi propongo di sviluppare con me consiste nell'individuare, seguendo il filo del filo di lana, l'analogia tra amore e conoscenza attraverso il rapporto del toccare, del tocco socratico; della tra-smissione e tra-dizione del sapere di tipo amoroso-aptico (= tattile) come nel fenomeno del liquido che si trasmette nel filo di lana.
L'idea di Agatone di una sorta di trasmissione corporea della sapienza attraverso il tocco suggerisce a Socrate il paragone col processo di trasmissione capillare dell'acqua attraverso il filo di lana in cui l'acqua scorre dalla coppa più piena alla più vuota; l'acqua-sapienza, che Socrate qualifica con una serie di espressioni figurate. La sua sapienza è come sogno (hosper onar). Quella di Agatone invece è fulgida e in crescita, lampeggiante e a molti manifesta. Così, con una serie di reciproci complimenti si conclude l'episodio e l'atmosfera del banchetto inizia a rilassarsi. Socrate si distese e cenò e al momento delle libagioni iniziarono i discorsi. Noi li lasciamo conversare e torniamo al nostro filo in cui l'acqua scorre dalla coppa più piena alla più vuota.
L'influenza tramite il tocco: il pieno e il vuoto
L'idea dell'amore e della conoscenza come riempimento di un vuoto è ben presente anche nel Fedro. In questo dialogo platonico si fa esplicito riferimento alla retorica e al linguaggio, ma anche al desiderio d'amore, che viene collegato per analogia a quello di cibo e bevande. La mancanza di risposta è ciò che reitera il desiderio, o come lo chiama Dante, l'appetito. L'amante, l'affamato, l'assetato, il lettore, lo studioso, vogliono di più.
Che l'amore come il linguaggio, la retorica, sia in qualche modo un liquido che fluisce e scorre (rhein), come nel filo di lana del Simposio – è immagine ricorrente anche nel dialogo Fedro. Innanzitutto, il dialogo si svolge all'esterno (una rarità!), in quel luogo incantevole dove Fedro e Socrate decidono di fermarsi a conversare. Si siedono infatti sotto un platano dove ci sono, nella calura estiva, ombra, una lieve brezza, erba, e rivi d'acqua puri e trasparenti. Oltre a ciò scorre sotto l'albero una gradevolissima fonte d'acqua fresca, e fa eco al venticello il coro delle cicale. È un'acqua che scorre quale scorre l'amore tra gli amanti che stanno vicini come i boccali congiunti dal filo di lana, mentre le cicale cantano e cantano, dimentiche di bevande e cibo, loro, e muoiono prima di accorgersene, immerse come sono nel loro desiderio di cantare e riempirsi del piacere nel canto.
È un'acqua-amore che facilita la conoscenza, sostiene Platone, quando l'amore si eserciti insieme alla dialettica per andare insieme alla ricerca del vero, in una comunanza che si fonda sull'amore per la verità, l'amore del maestro per i discepoli, l'amore dei discepoli per il maestro, l'amore di tutti per la verità che è frutto del loro reciproco amore.