La questione, sempre, pure in questo dodicesimo Festival dei Filosofi lungo l'Oglio - come in ogni manifestazione del pensiero appuntito e gratuito, rimane il rapporto tra tempo di ascolto e tempo di esplicazione. Il punto di mediazione è complesso; in ogni caso, la lezione della prof. Nodari è stata ampia ed esaustiva. Dopo di chè lei, per personalità, per spirito donativo, fors'anche per una sfida che nessuna mai risolve con il pensiero in sé e il proprio io altrettanto in sé, preferisce dare piuttosto che togliere.
La carezza, dicevamo, sta al centro del toccare nodariano. Subito la relatrice sottolinea il riscatto della carezza, la sottrazione a diverse ambiguità elencate nella sua ricerca. Intanto, attenzione a vivere la carezza nell'era del «to touch». «Si toccano schermi - spiega la prof. Francesca Nodari - più che carezzare corpi e il toccare sembra ridursi ad un automatismo... L'oggetto diventa un prolungamento di noi stessi, realizzando una sorta di mutazione antropologica della tecnica...
Contrapposizione artificiale-reale. Il rischio, in questa contrapposizione tra la carezza artificiale e reale, tra questo toccare quasi paranoicamente diviso in due trincee di epoche contrapposte, il rischio, dunque, è che il toccare diventi volgare, sostitutivo, anzi punitivo della carezza di materia e di consolante accesso a tutto l'amore.
La carezza del toccare, meglio, il toccare della carezza subisce un'altra insidia. Si riferisce alla diminuzione del concetto dell'altro, alla sua riduzione, a sistemare l'altro, o a costringerlo a sistemarsi, come ebbe modo di affermare il grande attore Vittorio Gassman in un suo saggio auto terapeutico, nelle memorie del sottoscala, rincantucciato, auto colpevolizzato, pensando di appartenere a un tempo superato. Come dire: chi ama così teneramente, chi carezza così verso l'altro, riunificando, misteriosamente, in un’empatia prossima allo spirito, per cui la carezza è la somma di due persone che si congiungono in essa, ecco, chi carezza così sarebbe preistorico, archiviabile. Invece è il contrario: chi non carezza così annega in un io narciso sporcato ancora di più dal piombo dell'artificialità e dalla dispersione del sentire, di quello che oggi, per abbreviazione e qualche imprecisione, si definisce il senso. Poco.
Francesca Nodari vola nella storia della filosofia, dai classici greci a Sartre, Levinas, Casper, danza sull'etimologia del sapere e conclude sulla questione centrale, sulla necessità di un ritorno calibrato alla pazienza. Nel dialogo platonico, la pazienza è spiegata come parte integrante del coraggio, indicata come una sorta di forza d’animo e Socrate la mette in contatto con l'interezza della virtù. Perciò, carezza come pazienza ci consente di toccare in un al di là dell'atto stesso, puro e incontaminato.
Insomma, conclude la relatrice, guai a cadere nell'impazienza di Ulisse con la necessità di aprire le finestre al tempo e se fosse possibile, o quando è possibile, allo spazio. Non in un senso, anzi con un sentimento di panteismo, io sono potente con la coscienza e la voglia e possa produrre una carezza dove e quando voglio io, no, ma sedendosi ai suoi piedi, in attesa che si contragga la sintesi dell’unità del corpo e dello spirito nel viaggio verso l'altro, proprio mentre l'altro tende la sua mano. Non è la vigilia del tocco insuperabile del Giudizio Universale di Michelangelo, lassù, nel mezzo della Cappella Sistina? Non ci carezza Buonarroti e noi, nello stesso istante, non lo carezziamo?