Ciò che sorprende sin da subito il lettore è la lucidità con la quale la filosofa andalusa descrive i quarant’anni anni di esilio servendosi per un verso della ragione intuitiva, per l’altro di uno sguardo fenomenologico che riesce a portare a datità la portata di un vissuto che è in una tensione continua verso la rivelazione. Sin da subito sembra di avvertire l’urgenza di chiarire la distinzione che passa tra il rifugiato (refugiado), lo sradicato (desterrado) e l’esiliato (exiliado). Se per le prime due figure l’espulsione viene avvertita come una condizione non definitiva, per l’esiliato si tratta di passare attraverso l’accettazione di questo «spossessamento». V’è poi l’esilio interiore di quanti rimasero in patria e l’esilio esteriore di quanti, come Zambrano, se ne andarono. Andarsene verso dove, se non si ha un luogo dove stare? Eppure una cosa nessuno avrebbe mai potuto togliere all’esiliato: il fatto di essere lasciato nella vita. La grande intuizione, che è poi una delle peculiarità del pensiero della filosofa, è propria stata quella di «far fruttare», per usare un’espressione levinasiana, il tempo a disposizione poiché – a differenza degli esiliati interiori assopiti in un inconscio collettivo – «questo vuoto, questo deserto in cui rimane chi è stato lasciato senza di nulla – anche senza la morte – solo con la vita» gli dischiude l’orizzonte e il tempo. Ora, andando oltre una ragione a-storica dove il soggetto è ancora declinato come cogito ergo sum, Zambrano si avvale di una ragione intuitiva che riguarda l’uomo in tutta la sua creaturalità e finitezza. Come chiarisce Savignano ciò che accade in questa condizione sui generis è proprio l’epoché del soggetto che è senza mondo, senza circostanza, catapultato in una dimensione fatta di privazioni, di innocenza. L’esserci è abbandonato eppure è desto, abita, senza cristallizzarsi in un personaggio, in un non-si-sa-dove che tende alla patria pre-natale: un’immensità radiosa che scaturisce dal delirio e conferisce un senso a questo suo stare. Solo, privo di ogni fondamento questi non si lascia ammaliare dal «finta di niente» del sonno, ma in un movimento senza requie che è una nascita continua – «bisogna salire sempre» – dalla profondità delle sue viscere si rivela come «lo sconosciuto che c’è in ogni uomo … proponendo il vedere per vedersi perché chi lo veda, si veda». Se dunque è vero che l’esperienza si fonda su quell’io che che sono «in virtù di ciò che vedo e patisco e non di quello che ragiono e penso», non ne viene forse che è paradossalmente nell’esilio – vissuto assurto a categoria – che si dà il disvelamento della Patria originaria? Anzi, nella passività del suo trascendersi, che riceve dalla realtà il dono del tempo, l’esiliato non rinviene forse nel «patire per la verità» il segreto del suo farsi credente, della sua visione profetica? Di qui il non-detto dell’esilio che da deserto arido si volge in privilegio per i beati al punto da far dire a Zambrano: «Amo il mio esilio».
Mercoledì, 30 Novembre 2016 21:10
Presentazione del libro di M. Zambrano, L'esilio come patria, a cura di A. Savignano
Francesca NodariIn questi tempi segnati da incessanti flussi migratori, da vere e proprie masse di uomini, donne, bambini che si spostano da un capo all’altro della terra ci pare quanto mai importante lasciarsi provocare dalle acute riflessioni di María Zambrano contenute nel volume: L’esilio come patria (Morcelliana) che verrà presentato mercoledì 30 novembre, alle ore 17.30, nella libreria dell’Università Cattolica in città con la partecipazione di Armando Savignano, uno dei massimi esperti contemporanei dell’ispanismo filosofico, che ha tradotto per la prima volta in italiano gli scritti raccolti nell’opera.
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