Meluzzi si libera dal luogo comune (che rischia di diventare prevalente) secondo il quale essere egoisti è naturale ed essere altruisti irrazionale. È affascinato da un libero arbitrio permanente, insidiato dall'ambiguità del dono, ma in grado di liberarsene per l'alleanza con una conoscenza ampia dei comportamenti umani con l’accesso nuovo all’empatia. De resto, proprio sul piano puramente antropologico, l’io non cammina se non decide di incrociare quel tu, non altro che l’immagine di sé proiettata dinamicamente nella comunità vivente. Non possiamo fare a meno gli uni degli altri, insiste il prof. Meluzzi, seguendo le ragioni già espresse nella lezione di Barbariga dalla prof. Francesca Nodari intorno all'«irriducibilità dell’arrivante», secondo Levinas.
L’«altruità». Gettati nel mondo, non possiamo che ricevere la nostra immagine negli altri e per gli altri. Il momento rivoluzionario dell'esistenza, insiste Meluzzi, è la scoperta dell'altro a cui si attribuiscono le stesse proprie prerogative. Ma rimane centrale l’esigenza imprescindibile di non considerare l'altro come la nuova petizione marionettistica del rapporto di potere con se stesso, di un egocentrismo che finge di osservare l'altro, di portargli un dono e invece lo asservisce con un dono drogato, un dono di servitù. O si considera l'altruità unica o salta qualsiasi rapporto instaurato, nella società come nella famiglia. Il perdono, a questo punto, entra in campo con forza dirompente e semplice. Ilperdono non è di certo quello che si richiede dal cronista idiota allorché domanda a una madre a cui hanno appena amazzato un figlio «signora, perdona l'assassino?». Qui i nervi debbono allenarsi alla pazienza del giusto. Cosa spinge il cronista di turno ad accede, impietosamente, ad una domanda così inutilmente senza senso? Probabilmente la ricerca di un sì, garanzia di lode professionale, di scoop ad alta intensità emotiva perché costituirebbe una notizia, la rottura della normalità, «il perdono a fulmine», il perdono di un santo. Oppure la domanda idiota, nasconderebbe, in sede psicanalitica, il desiderio inconscio di essere perdonati per ogni futura malignità. Se la madre perdona l’assassino del figlio in cento secondi, anch’io, anche noi saremo perdonati, qualora ne avremmo bisogno, in altrettanti cento secondi. Qui il perdono diventerebbe la chiave per una preventiva impunità, una sorta di amnistia senza spazio e tempo a favore di sé. Invece, riflette il prof. Meluzzi, il perdono è interiorizzazione, il più grande dei doni poiché si tratta di donare per tre volte a chi ti ha tolto qualcosa. Il perdono incrocia la potestà della non violenza, la fortissima strategia della mitezza. Garrisce la bandiera con l’inno meluzziano: «viva la mitezza, viva la non violenza» che portano al perdono. Non lo dichiara con leggerezza: Meluzzi conosce la furberia di certe mitezze e certi pacifiscmi; avverte di centellinarli in un visione accurata, di distinguere, nella lunghezza dei gesti, chi è autentico da chi si camuffa per assumere identità fasulle. Il dono e il perdono restano liberalmente e liberisticamente possibili. La prima vecchiaia, conclude il docente, regala empatie rapide.