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Venerdì, 03 Ottobre 2014 22:07

Ghetto di Varsavia nessuno voleva credere all'orrore

Sul tavolo basso, di legno, c'è l'omaggio che gli hanno lasciato: un cappello da ufficiale, con dentro cucita a mano la scritta «all'uomo che ha dedicato la vita a salvare il popolo ebraico».

Simcha Rotem, nato in Polonia nel 1924 con il nome di Szymon Ratajzer, è uno degli ultimi tre sopravvissuti della rivolta del ghetto di Varsavia ed è in arrivo a Roma per presentare il suo diario Il passato che è in me, uscito per i tipi di Salomone Belforte & Co. di Livorno, con introduzione di Anna Rolli e postfa-zione di David Meghnagi. La prosa tagliente riflette i ricordi, ancora vivi. «Era la fine del 1942», racconta, seduto in un salotto decorato con le opere della moglie Gina, anch'essa sopravvissuta alla Shoah. «Le deportazioni erano già iniziate e nel ghetto la discussione era su cosa fare, in molti non volevano credere all'intenzione dei tedeschi di ucciderci tutti. Poi arrivò il nostro primo testimone». Era un ragazzo, suo lontano cugino. «Lo avevano preso in una retata, era finito su uno dei treni che andavano a Treblinka, che era un campo di pura eliminazione poco distante da Varsavia. Quando vi arrivò, esile come era, riuscì a fuggire dalla rampa, tornando dentro il vagone e quindi indietro, alla destinazione iniziale, sotto una montagna di indumenti tolti agli altri deportati».

Fu questo ragazzo a raccontare ai giovani del ghetto l'«odore dei corpi bruciati, il fumo puzzolente che usciva dalle ciminiere e impregnava l'aria di morte». Poco dopo un membro del partito Bund, di nome Zygmunt, venne segretamente inviato sempre a Treblinka per confermare quantó il primo testimone aveva visto. Fu la prova incontrovertibile che lo sterminio era in corso e per il Zydowska Organizacja Bojowa (l'Organizzazione ebraica di combattimento guidata da Mordechai Anielewicz) segnò il momento di non ritorno verso la preparazione della rivolta, poi iniziata il 19 aprile 1943 con l'esplosione di una mina sotto una colonna di soldati tedeschi. «Ma la tragedia fu che la maggioranza delle persone nel ghetto continuavano a non credergli, gli stessi genitori di mio cugino non gli credettero», ricorda Rotem, nome di battaglia Kazik, derivato dal polacco Kazimierz, dovuto al fatto che aveva un look da gentile e parlava polacco senza accento yiddish.

Furono queste caratteristiche che, a 18 anni, lo fecero diventare la staffetta della resistenza ebraica, il cui compito era di creare passaggi attraverso le macerie del ghetto in fiamme e il muro di cinta per tenere i contatti con il comando esterno della rivolta e la resistenza polacca. Per questo, quando scattò l'attacco finale dei tedeschi contro le ultime postazioni dei ribelli, lui era fuori delle mura. Per due settimane tentò ogni notte di rientrare, ma senza successo. Quando infine vi riuscì, «emersi da un tombino in uno scenario spettrale, il ghetto non c'era più, sostituito da cumuli di rovine a perdita d'occhio, ogni punto di riferimento sparito: in quel momento pensai di essere l'ultimo ebreo in vita». Nel tentativo di trovare superstiti «seguii un percorso fra le rovine gridando in continuazione la nostra parola d'ordine, ma fu il silenzio più assordante, rotto solo dalla voce di una donna rimasta intrappolata, con una gamba rotta». Rassegnato al peggio, Kazik tornò nel cammino sotterraneo. «Fu allora che sentii in lontananza un rumore, gridai la parola d'ordine e scoprii che c'era un intero gruppo che stava aspettando proprio me per sapere come uscire».

Circa ottanta combattenti del ghetto - incluso Marek Edelman, nuovo comandante dopo la morte di Anielewicz - riuscirono così a lasciare Varsavia, passando attraverso i tunnel delle fognature, e una trentina di loro sopravvisse alla Seconda guerra mondiale. «Quel che ho visto nel ghetto di Varsavia, però, non mi lascia mai», assicura il sopravvissuto, rosso di rabbia quando parla dei «neonati presi per i piedi e sbattuti contro il muro dai soldati tedeschi», oppure del «rifiuto degli americani di ascoltarci quando li pregammo di bombardare Auschwitz e distruggere almeno uno dei forni crematori». Ai tedeschi rimprovera di «averci tolto anche l'umanità». E per spiegare cosa intende, ecco quel che racconta: «Un giorno per strada nel ghetto sentii il pianto di un bambino, gettai lo sguardo, vidi che a fianco aveva la madre morta e andai via d'istinto. Ecco come ci avevano ridotto». Non usa mai il termine «nazisti», perché «non mi dice nulla, erano tedeschi e basta, bestie su due gambe».

La riflessione sull'origine di tale brutalità lo accompagna da allora, ma confessa di non essere riuscito a trovare risposte o spiegazioni sufficienti: «L'essere umano ha due gambe ma anche una bestia può avere due gambe, noi siamo esseri umani e i tedeschi erano bestie, la trasformazione degli uomini in bestie avviene in maniera impercettibile, immediata, devastante». E questa «genesi del male continua a essere fra noi, afferma, citando l'esempio delle brutali decapitazioni da parte di Isis in Iraq e Siria: «È la dimostrazione che ancora oggi può ripetersi ciò che avvenne allora, i tedeschi erano i più colti d'Europa e diventarono un popolo di bestie, così come i tagliatori di teste di Isis sono cresciuti in molti casi nelle città della pacifica Europa».

Per difendersi da questa «orribile trasformazione dell'uomo», conclude, «bisogna combattere, sapersi difendere non abbassare mai la guardia, come facemmo noi pur consapevoli di non poter vincere, e come fanno i giovani marinai israeliani che rischiano la vita per il popolo ebraico e mi hanno regalato questo cappello.

Informazioni aggiuntive

  • autore: Maurizio Molinari
  • giornale: La Stampa

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