Capire l’importanza «filosofica » delle...Piccole cose. È questo il titolo della lectio magistralis che Francesca Rigotti, docente di Dottrine Politiche presso l’Università di Lugano, terrà sabato 15 settembre, alle 10, a piazzale Re Astolfo a Carpi, nell’ambito della XII edizione del Festivalfilosofia. Prof.ssa Francesca Rigotti, nel suo libro Filosofia delle piccole cose (Novara, Interlinea, 2004), mette in discussione il pregiudizio secondo il quale la filosofia dovrebbe occuparsi solo di cose, per così dire importanti, epocali.
Su che cosa si fonda un tale luogo comune? E ancora: cosa si deve intendere per cosa? Partiamo dal secondo punto: il nome cosa, derivato dal latino causa, che ha sostituito il termine classico res, indica tutto quanto esiste, nella realtà e nell’immaginazione, di concreto e di astratto. Lo dice anche il nome comprensivo che usiamo per indicare tutto ciò che c’è: la «realtà», dal latino medievale realitas, ovvero l’insieme delle res. Le cose sono oggetti, masserizie, quanto ci serve per i bisogni della vita come la ResPublica,cosa di tutti. Agli albori della cultura, vennero introdotti confini che ne elevarono alcune verso l’alto, schiacciandone altre verso il basso. In alto, vennero poste le attività pubbliche, esercitate dagli uomini (maschi) liberi: guerra e politica, giurisprudenza ed economia.
In basso, le cose di casa: le cose da donna, le piccole cose. In polemica con tale visione, abbiamo provato a scombinare le gerarchie e a mettere le cose piccole in posizione centrale. In alcuni miei saggi scrissi in chiave filosofica di brocche e di scope, di porte e cestini della carta. Al Festivalfilosofia eserciterò un’operazione ancor più azzardata: presenterò un’ontologia dello scolapasta, dal momento che il logo scelto dalla direzione del Festival, per le cose, è l’immagine di uno di questi attrezzi da cucina( di quelli vecchi, di alluminio, coi manici di bachelite e tante rose di sette buchetti ognuna) illuminato dall’interno. In che senso lo sguardo fenomenologico è un’educazione all’umiltà e alla sobrietà? E in che modo si perviene alla valorizzazione delle piccole cose? Si tratta di uno sguardo che procede all’osservazione delle cose piccole secondo un metodo preciso e seguendo l’esempio di Socrate, che aveva l’abitudine di girovagare per la città discorrendo col calzolaio della scarpa, col vasaio della pentola, con il falegname del letto. Si prende dunque, dice la mia ricetta, un oggetto umile e si cercadi considerarlo «fuori d’ogni abitudine percettiva, di descriverlo fuori d’ogni meccanismo verbale logorato dall’uso », come scrive Italo Calvino del modo di fare poesia delle cose di Ponge. In questo modo si può parlare del pane, delle forbici, della scopa. Il segreto è fissare d’ogni cosa l’aspetto decisivo e costruire attorno ad esso il discorso.
Così l’ontologia dell’ombrelloci dice che esso è quella cosa che si dimentica, come scrive Nietzsche ripreso da Derrida, e che la scopa è la cosa che sta nell’angolo, a detta di Wittgenstein. E lo scolapasta? Lo scolapasta è ciò che fa uscire qualcosa dai buchi. Ma non necessariamente e non solo l’acqua di cottura; fa uscire anche luce, ricordi, pensieri. L’ontologia dello scolapasta ci dice che èuna cosa coi buchi,ma anche piegata ad arco, tondeggiante, ricurva. Lei, filosofa con quattro figli,ha ribaltato, in un altro suo saggio, «Partorire con il corpo e con la mente» (Bollati Boringhieri, Torino 2010), un altro luogo comune legato all’inconciliabilità tra«cuore di mamma» e «testa di mamma », mostrando come le cure domestiche attivano un sensorio estetico e morale che, lungi dall’ostacolare la riflessione, offre un prezioso vantaggio speculativo.
In che termini vi sono nei Suoi libri dei rimandi autobiografici? Ci sono sì rimandi autobiografici, ma non soltanto relativi alla mia condizione di madre. Il più importante infatti, quello decisivo, riguarda semmai l’esperienza dell’emigrazione in Germania. È come se l’essere andata lontano, abbia distrutto la gerarchia dell’ordine universale; è come se quel distacco mi abbia permesso di filosofare su tutto: sui gesti quotidiani, sulla scrittura, sulla porta, sull’ombrello e la pentola, le forbici, il pane. Come se una specie di «libertà del migrante » abbia favorito il passaggio dal tema obbligatorio, le cose grandi della filosofia politica, alle cose piccole della vita quotidiana.
Rimandi autobiografici che hanno condotto a operazioni simili sono presenti anche in quel libro che lei cita, dove ho cercato di dimostrare che l’essere madri offre un vantaggio speculativo: nella testa di una mamma sono presenti straordinarie capacità di programmazione, coordinamento e organizzazione; c’è una solida impalcatura di sostegno e di controllo in grado di organizzare e gestire molte cose in una volta, la preziosa «testa di mamma» accanto al più noto e melenso «cuore di mamma».