Lo stesso sostiene l’ignoto autore dell’Ecclesiaste o Qoèlet biblico: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità». Potrei continuare a lungo e spegnere ogni ragionevole attesa di felicità. Eppure la nostra esistenza non è fatta solo di infelicità, che peraltro non si potrebbe neppure concepire se non fosse illuminata da lampi o periodi di felicità. Certo, la felicità non si può ottenere a comando. Non si può dire «Sii felice!», così come non si può dire «Sii spontaneo!». Come diceva Cechov, «la felicità è una ricompensa che giunge a chi non l’ha cercata». Inseguita troppo, con parossismo e con insistenza, essa finisce per produrre effetti negativi. Quando qualcuno ottiene il risultato cui aspirava, spesso conclude con un «Tutto qui?».
Kant lo ha spiegato a uno storico russo: «Quando uno cerca la felicità e la raggiunge, si accorgerà che tutto non è tutto», cioè che qualcosa manca. La felicità è quella che non abbiamo cercato e arriva come un dono accolto con gratitudine. La felicità non somiglia alla calma piatta e il cielo azzurro, alla semplice, ma gradevole serenità dell’animo. È piuttosto paragonabile ai vertici o ai picchi di un diagramma vitale. Noi viviamo in una realtà fatta di momenti, per così dire, spiccioli, mentre la felicità è una specie di moneta d’oro che si trova intera e non si sminuzza in piccole parti. La felicità è un modo di incontrare se stessi, con il nodo che noi siamo, e noi siamo dei nodi di relazione. Già da bambini l’io non esiste, lo ritagliamo dalla madre e poi dai compagni, dai maestri di scuola. Il nostro io è semplicemente un cantiere in costruzione e allora l’errore, l’infelicità, deriva dal ritagliare dentro questo nodo di relazioni un presunto io in maniera narcisistica, dimenticando che noi siamo fatti dagli altri. La felicità consiste semplicemente in questo riannodare tutti i nostri legami, e nel riscoprire appunto una ricchezza di questi fili che si dipartono e convergono in noi stessi. (...)
Oggi è giunto a conclusione un ciclo bicentenario di pensiero e di prassi che aveva attribuito alla politica una funzione salvifica, promettendo a popoli o classi una felicità futura grazie al suo innesto nel corso della storia. Inserendosi nella corrente degli eventi, cavalcandone la cresta dell’onda, sintonizzandosi su processi già in atto, seguendone la «meccanica razionale», la politica pensava di fruire dell’energia ascensionale del movimento storico per giungere felicemente alla meta. Ora pare che questo obiettivo non sia più conseguibile, che la ricerca della felicità individuale si sia ulteriormente staccata da quella della felicità collettiva, che ciascuno voglia pensare solo a se stesso o ai suoi familiari ed amici. L’avvenire, che appare sostanzialmente incerto, o addirittura pauroso (esaurirsi delle risorse, riscaldamento globale, fame per centinaia di milioni di persone, terrorismo) sembra sfuggire al controllo degli uomini e riporsi di nuovo, per molti, nelle mani di Dio.
La contrazione delle attese e delle speranze di largo respiro spinge le persone a concentrarsi sul presente. Questo significa, però, una desertificazione del futuro o una sua privatizzazione. Ciascuno si ritaglia una propria fetta di cielo. Si accorciano, così, i piani di vita dei singoli e si attenua la forza propulsiva delle istituzioni. Se l’esistenza degli individui e delle comunità è improgrammabile nei tempi lunghi, se le promesse di paradisi terrestri illuminati dal sole dell’avvenire non si possono mantenere, la consapevolezza (o almeno il presentimento) di una vita migliore in comune spinge gli individui, schiacciati sul quotidiano, a perseguire soltanto una fragile felicità, che – per quanto effimera – può riempire ugualmente i momenti culminanti dell’esistenza.