A Ostiano, piccola patria di un'enclave ebraica della vita, dal Quattrocento fino al 1944, il filosofo, prof. Massimo Giuliani arriva puntuale da Roma, che è già una forma di stile alto di giornata. In mezzo al passo d'entrata del castello, una lapide lo saluta e viene salutata: «Ad Armando Finzi, Ostiano 1884-Auschwitz 1944». Appena dentro il Castello, all'ultimo piano di un fabbricato che mostra il suo senso antico, ecco la Sinagoga, spiega l'assessore Merlo. Sta riprendendo colori e postura morale proprio per aggiustare quella «memoria troncata» di Ostiano, vittima di una geografia infausta. Più lontano, dietro al camposanto, il camposanto ebraico, ordinato e suggestivo. Il paese resiste allo spopolamento anche con questa strategia del ritorno della cultura vissuta e possiede intrisamente una bellezza padana meritevole di molti sussulti.
Perchè la bellezza, pure quando dorme su un confine così diviso tra Brescia, Cremona e Mantova e così da dogana lontana, merita la vittoria. Nel cuoricino del teatro tardo settecentesco, l'aria calda è minore dell'aria fredda, ma si perde il filo della cattiva stagione per l'intelligenza di una presentazione appassionata di Francesca Nodari, leader dei Filosofi lungo l'Oglio, dell'assessore Merlo e quindi del prof. Massimo Giuliani.
Al centro, l'Olocausto e il prof. è subito accattivante: chi sono io, dice, per parlare della Shoah, per arrogarmi un diritto così impegnativo? Non sono un testimone diretto, non amo legare la coscienza e la conoscenza a questioni esclusivamente emotive, non intendo lisciare il pelo alla doppiezza della memoria, che prende e toglie ciò che le interessa e come seconda faccia dispone di quell'oblio, che è la sua maggiore natura. Non intendo costruire la carriera sul dolore altrui. Dunque, il mio compito, preciserà il prof. Massimo Giuliani, sarà quello di convincere sulla trilogia centrale della memoria, fondata su tre momenti doverosi: ricordare, storicizzare, responsabilizzare. E ciascuno di questi momenti va perlustrato, non va colto il suo punto debole o deviante, si scelga la memoria inattaccabile del contesto, del testo e del futuro.
Primo Levi è subito un riferimento quando scrive nel 1986, un anno prima di morire, che l'intera storia del breve Reik millenario può essere letta come guerra contro la memoria. Ma, attenti, aggiunge Levi, la memoria è uno strumento meraviglioso ma fallace, ed essa non è l'ultimo tribunale della storia. Dunque, serve il contesto stesso della storia. La memoria va qualificata, non ha senso la memoria neutra. Perciò serve la storia perchè si deve giudicare. La memoria senza giudizio è esercizio vuoto. Attenzione, però, la storia della memoria corre il rischio di essere banalizzata oppure, al contrario, di essere sacralizzata. C'è una via intermedia che salva dai pericoli di queste due estremizzazioni.
Occorre, spiega il prof. Massimo Giuliani, la memoria che ripara il mondo, che pone la persona nell'equilibrio di ricevere e di dare la migliore responsabilità della testimonianza, che alla radicalità del male contrappone un'altrettanta radicalità della resistenza al male, in una battaglia, come si legge nella Bibbia, contro il caos.
Perchè, alla fine, come scrive il filosofo Emil Fackenheim, citato ampiamente da Nodari e Giuliani, è indispensabile un Tikkun - significa aggiustamento - dopo Auschwitz, serve «riparare il mondo» come dice il titolo del testo del pensatore ebreo e alla radicalità del male si contrapponga una radicale resistenza. Questa la responsabilità. E questo finale l'ultimo avviso per convincersi a predicare, di nuovo Fackenheim, il 614esimo precetto. Quale? Questo: vietare a Hitler una vittoria postuma.