Breviario filosofico per comunicare meglio» (Padova, Messaggero ed., 95 pp., 8 u), esito fecondo di quella filosofia della relazione sulla quale l’autore si è diffuso nel suo «TeorEtica» (Morcelliana, 2010), ove la stretta
correlazione tra teoresi e pratica rintraccia nel coinvolgimento la responsabilità del pensiero.
Non è facile dialogare con chi non si mette in questione,con chi fa finta di dialogare o usa le parole per creare divisioni e non per «gettare ponti».
Ma, afferma Fabris, siamo costitutivamente inseriti in una dimensione relazionale - propria di un’identità aperta - e in un necessario superamento di altre due tipologie d’identità oggi molto diffuse: quella di chi non ha altra intenzione che di fagocitare l’altro (l’identità muro) o quella di colui che vede nel tu un mero riflesso del proprio ego (l’identità specchio).
La posta in gioco è alta: a partire dallo sguardo filosofico che rintraccia nel «dialogos» il risultato di «una motivazione etica che riguarda tutti», offrire le condizioni perché si dia la possibilità pratica di una compartecipazione tra esseri umani appartenenti a confessioni distinte - in particolare nel volume si fa riferimento ai tre monoteismi che riconoscono in Abramo il padre comune -, ma anche tra credenti e non credenti. Una sfida alla quale ha richiamato lo stesso Benedetto XVI facendo riferimento all’immagine del «cortile dei gentili». E se nel saluto il rapporto diventa conseguenza del mio chiamare, nel colloquio la parola che rivolgo all’altro è parola che mi viene restituita e che fa sì che si possa instaurare un riconoscimento contagioso. Ma è nel dono che prende corpo il dialogo autentico.
Ossia quel rapporto in cui non temo di espormi all’altro, anzi accetto il rischio di confrontarmi con il tu, poiché andando ben al di là del mero scambio della reciprocità, si fa dono non tanto di ciò che si ha, ma di ciò che si è.
Fabris richiamando i tre maestri del pensiero dialogico - Martin Buber e Franz Rosenzweig per l’ebraismo, e Ferdinand Ebner per il cristianesimo - mostra come il Dio della Scrittura sia un Dio strutturalmente dialogico, che chiama a sé l’uomo, il quale gli risponde con un’invocazione; mentre, a sua volta, egli si rivolge all’altro con un appello. Ma se ciò che accomuna queste religioni è la vocazione dialogica, risulta chiaro che tale disposizione può essere estesa alla propria e all’altrui comunità religiosa così come ai rapporti tra chi crede e chi non crede perché, come ricordava Giovanni Paolo II, chi ha fede non ha paura dei rischi che in un dialogo possono essere corsi. Se per Rosenzweig la rivelazione è pensata come un dialogo tra Dio e l’uomo, il «dare del tu» al prossimo è la forma che caratterizza il linguaggio della redenzione.
Il volume si conclude proponendo mosse concrete per favorire il dialogo: interrompere il silenzio di chi si chiude in sé in nome dell’inevitabilità dell’evento comunicativo, considerare in positivo quanto viene detto non cedendo alla logica dei comportamenti simmetrici, considerare l’interlocutore sempre come una persona e prolungare il dialogo nella testimonianza. Rosenzweig osserva che «nel dialogo accade qualcosa sul serio». Babele, conclude Fabris, non è un destino.