«Per l’uomo d’oggi la solitudine è condivisa» Parla il grande etnologo francese autore di «Straniero a me stesso» «L’antropologo studia le relazioni sociali in gruppi di dimensioni abbastanza piccole per poterci lavorare da solo; la relazione sociale è il suo obiettivo intellettuale, ma si sforza di comprenderla nel suo contesto. Oggi il contesto è sempre mondiale, negli Llanos come nel profondo dell’Amazzonia o del Sahara». Così si descrive Marc Augé, uno degli antropologi francesi più noti in ambito internazionale, esibendo una carta d’identità che riassume la sua attività di studioso guidato da una straordinaria intuitività. Inventore della «scrittura antropologica», della quale ha fatto la sua disciplina, perché per lui scrivere vuol dire «rovesciare l’ordine delle cause e degli effetti», Augé ha viaggiato moltissimo per verificare sul posto la vita dei nostri simili, ma soprattutto per vivere fisicamente e quotidianamente gli altri attraverso «l’immaginazione e il ricordo, in modo sempre più lancinante e ossessivo». Da queste esplorazioni nasce la sua teoria di «non luogo», contrapposta ai luoghi antropologici canonici, a quella modernità fatta di città interconnesse, dove opulenza e miseria convivono affiancate, e la scienza più avanzata sembra non tener conto dell’ignoranza abissale che ancora affligge molti popoli della terra.
«Il fatto – dice con reale sofferenza – è che la terra è divisa in classi, il mondo è sempre più individualizzato e benché tutti viaggiamo sulla stessa barca verso lo stesso destino, i più fortunati sembrano ignorare per via della loro condizione privilegiata, che con i nostri comportamenti stiamo deragliando da ogni regola». Questo francese elegante, che appare molto più giovane dei suoi 76 anni, e a tratti, mentre parla, si liscia i morbidi e folti capelli bianchi, ha viaggiato molto in africa e poi in america Latina, trovando in queste culture molti spunti e interessi in comune, sebbene diversi.
Autore di saggi che hanno fatto epoca («Nonluoghi», «Disneyland e altri luoghi», «Un etnologo nel metrò», «Che fine ha fatto il futuro»), in cui ha indagato a fondo l’umanità e le sue evoluzioni, per il suo ultimo libro appena arrivato in libreria, «Straniero a me stesso» (Bollati Boringhieri, pp. 176, 16€), in cui si racconta (ma nello stesso tempo avverte: «non è un’autobiografia») «Tutte le sue vite di etnologo», molti l’hanno paragonato a Lèvi-Strauss, antropologo di riferimento internazionale. Augé prende le distanze: «Mi fa piacere, anche se non mi riconosco nella sua scuola. Ma ritengo che molte delle sue intuizioni sono indispensabili per capire i nostri tempi».
L’abbiamo incontrato a Pistoia alla manifestazione «I dialoghi sull’uomo», dove ha parlato de «Il corpo e della sua concezione nelle società diverse dalla nostra» (lunedì, 6 giugno, aprirà la rassegna «Filosofi lungo l’Oglio», come annunciamo in questa pagina). «Il corpo parla di se stesso – ha affermato –. Il corpo soffre, sente delle cose, è uno strumento di lettura della relazione sociale. Coloro che si definiscono indovini, sono semplicemente degli interpreti del corpo». Da etnologo, in qualche momento della vita ha modificato il suo percorso scientifico? È successo in africa, in Costa d’Avorio, dove ho vissuto per cinque anni. Ho cominciato a riflettere sul mio lavoro e a chiedere a me stesso quale fosse la natura del mio impegno. Non volevo raccontare la storia della metropolitana o dei giardini di Parigi, o delle megalopoli all’interno delle quali si sentono in maniera forte le differenze sociali, etniche, culturali ed economiche: facevo una vera e propria inchiesta su che cosa fosse un etnologo.
Cosa la angustiava? Forse il fatto che mi sembrava quasi di vivere in un eterno movimento, e sentivo la terra molto piccola. Posso dire che ho cominciato a lavorare alla fine della colonizzazione e oggi mi ritrovo in piena globalizzazione. Come è stata la sua esperienza in Africa? Intensa, mi ha lasciato un segno profondo. Nell’Africa occidentale, e in particolare Costa d’Avorio e Togo, ho imparato moltissimo sul sistema africano, dove alcune cose non sono considerate contraddittorie come invece facciamo noi.
Qualche esempio? La morte rispetto alla vita, l’uomo rispetto agli dei. Esiste una sorta di filiazione fra questi diversi aspetti. Se volessimo trarne una lezione più filosofica, direi: il grande sforzo di queste popolazioni a non vedere le contraddizioni tra la vita e la morte credo sia la miglior lezione di vita che possiamo apprendere.
Quali sono i «non luoghi» specifici del nostro tempo? I «non luoghi» sono gli spazi di consumo del mondo, dove le relazioni sociali non sono eventi. Non voglio categorizzare e mettere tutti gli elementi positivi nel luogo e tutti gli elementi negativi nel «non luogo», ma nel luogo, ad esempio, sovente non si accoglie l’altro. Questa è l’origine delle violenze in Africa, dove l’africano è già migrante nella sua terra, e ciò si riallaccia al concetto del luogo rifiutato, che è anche uno sradicamento dall’Africa.
A cosa si riferisce? Mi riferisco alla solitudine che può essere in vari tipi di spazio. Pensiamo a un supermercato in cui c’è molta gente, ma ognuno circola per conto proprio. O un viaggio in aereo o in treno, dove si viaggia accanto a persone che non si conoscono. Ma c’è anche lo spazio della comunicazione, la tv e Internet. Con al tv la relazione è stata sostituita dall’immagine. Così è Internet. Le amicizie nate attraverso un network che cosa ci possono dare? Questa è solitudine condivisa.
Straniero a me stesso, se non è un’autobiografia, che cos’è? Potremmo definirla un’autobiografia intellettuale. Un tipo di solitudine o un non luogo, la posizione di chi osserva e scrive, che è quella di un intermediario, come gli dei di Omero, che dall’Olimpo parteggiavano per gli eroi dell’«Iliade».