Spesso, per ignoranza diffusa, si tende a non capire il senso della distinzione della parola “femminicidio” e della parola “omicidio”. Qual è la distinzione e perché è importante questo distinguo?
Purtroppo l’ignoranza continua a dilagare – si pensi a quanto rivelato dall’indagine Ocse sulle competenze sugli adulti: oltre un terzo degli italiani è analfabeta funzionale e si legga il 58° Rapporto del Censis e si rifletta su ciò che viene definita la sindrome italiana che “è la continuità nella medietà in cui restiamo intrappolati”– e questo genera molta confusione, portando le persone a chiedersi quale necessità vi sia nel distinguere un femminicidio da una qualsiasi altra forma di omicidio. Questo è un problema culturale che va affrontato seriamente. Se la parola omicidio indica le uccisioni dolose, preterintenzionali, premeditate o colpose, per femminicidio si intende “l’eliminazione fisica di una donna in quanto tale”. Tale concetto, è collegato all’idea di una violenza strutturale contro le donne, che si traduce in un crescendo di gesti violenti sia nella dimensione privata che in quella pubblica. Come afferma l’antropologa Marcela Lagarde, una delle prime teorizzatrici del concetto: “Per fare in modo che il femminicidio si compia nonostante venga riconosciuto socialmente (…) esso richiede una complicità e un consenso che accetti come validi molteplici principi concatenati tra loro. Interpretare i danni subiti dalle donne come se non fossero tali, distorcerne le cause e le motivazioni, negarne le conseguenze”.
Chi sono gli orfani di femminicidio e quale è la loro condizione oggi?
Sono l’effetto collaterale dell’apice in cui sfocia la violenza domestica. I cosiddetti “orfani speciali” o “bambini invisibili” sono bambini e bambine rimasti orfani a seguito di un femminicidio, conseguenza estrema, la più grave, del fenomeno della violenza sulle donne. Spesso non si mostra sufficiente consapevolezza del fatto che, nella maggior parte dei casi, le donne che vengono uccise sono contemporaneamente anche madri. Parlare di violenza di genere, come è noto, implica prendere in esame la plurivocità di significati e di vissuti che da essa scaturiscono: si va dalla violenza economica a quella psicologica, dalla violenza assistita alla vittimizzazione secondaria. È stata proprio Renza Volpini – mamma di Jessica Poli, donna di Canneto sull’Oglio, uccisa diciotto anni fa, con trentatrè coltellate dal marito e poi gettata nel fiume – ad affermare come non ci si possa certo fermare all’inaugurazione della panchina rossa – cosa buona e giusta – per contrastare fattivamente la violenza contro le donne. Questo è un segnale, come lo rappresenta la fortunata campagna del “posto occupato”, ma si tratta di punti di partenza dai quali muovere per poi realizzare, sostenere, intensificare – e non solo il 25 novembre di ogni anno – incontri di sensibilizzazione e di confronto. L’uccisione di queste donne è un dramma che colpisce molte persone accanto a loro, in particolar modo i figli che, nel caso in cui l’omicida sia il loro padre, perdono contemporaneamente entrambe le figure di riferimento genitoriali. Questi bambini o finiscono a carico dei nonni o dei parenti più prossimi o in condizione di possibile adozione. È l’esplosione di un trauma: il padre femminicida, detenuto in carcere in quanto autore del reato, o padre suicida e la madre uccisa. Questi bambini o ragazzi si trovano completamente disorientati e ciò sferra un colpo pesantissimo alla loro crescita personale impedendogli di realizzarsi anche nel futuro.
Perché è importante parlarne oggi più che mai?
È più che mai urgente parlare di questo argomento poiché sulla vicenda degli orfani speciali grava un vissuto doloroso dietro cui si nasconde il sistema farraginoso e burocratico del nostro Paese, oltre alla solitudine che influisce sempre più sulla sfera soggettiva e personale. Si potrebbe dire che vi sia una situazione di buio paragonabile a quella che riguardava le donne vittime di violenza alla fine degli anni 90: allora denunciare il proprio carnefice sembrava quasi irriverente. Regnava sovrana l’omertà. Lontanissima era l’approvazione della Convenzione Europea sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, firmata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011. Così come il cosiddetto Codice Rosso, Legge 19 luglio 2019 recante “modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza e di genere”. Ora quale quadro legislativo devono affrontare, oggi, i caregiver e gli orfani speciali In Italia? Vi sono due leggi: la LEGGE 7 luglio 2016 n. 122, che all’articolo 11 prevede il “diritto all’indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti, in attuazione della direttiva 2004/80/CE”; e la legge 11 gennaio 2018 n. 4 , che tutela gli orfani a causa di crimini domestici. Due leggi importanti in quanto lo Stato non può lasciare sole le vittime, ma al contempo presentano, secondo gli esperti, lacune profonde. Affinché le persone colpite possano avere acceso al sostegno economico la legge richiede due documenti: o il decreto di archiviazione perché l’autore è rimasto ignoto o una sentenza definitiva di condanna. Però la realtà dei fatti ci dice chiaramente che nell’oltre 40% dei casi di femminicidio, gli autori si suicidano. Stando così le cose, verrebbero meno i requisiti necessari per poter accedere agli aiuti in questione. Purtroppo esiste questo gap che va colmato e che aggiunge dolore a dolore: accanto alla difficile elaborazione del lutto di una figlia barbaramente uccisa e resa per sempre muta, si trovano a dover far fronte alle esigenze di questi “bambini invisibili”, alla loro crescita, alla difficile dimensione esistenziale in cui essi si trovano avendo, tra l’atro, in carico la totalità delle spese necessarie per il loro presente e il loro futuro. A ciò si aggiunga l’età che avanza, la scomparsa di uno dei coniugi, il senso di abbandono e di solitudine che cresce, la sofferenza indicibile e insostenibile se non viene, almeno, condivisa e lenita da qualcuno che sta accanto.
Ci sono dati che mostrano il livello di drammaticità del fenomeno?
Ad oggi non esiste un censimento nazionale sugli orfani di femminicidio. Merita un plauso particolare la recente istituzione dell’Osservatorio Nazionale Indipendente sugli Orfani Speciali, iniziativa nata dall’esperienza di Telefono Donna Italia così come progetti del calibro di Respiro. Destano viva preoccupazione i dati aggiornati al 22 novembre 2024 (fonte: Non Una Di Meno): su 106 femminicidi nel 2024 in Italia, 10 casi sono avvenuti in Lombardia (14,4%) di cui 3 a Brescia. Sulla totalità, 9 sono i casi di violenza assistita, 43 quelli in cui l’assassino era il marito, il compagno o convivente; mentre in 27 casi l’autore del reato si è suicidato. Infine, ammontano a 46 gli orfani speciali minori.
Recentemente avete organizzato un evento importante alla Fondazione Filosofi lungo l’Oglio su questo argomento. Chi se ne sta occupando a livello nazionale?
Sì, il 29 novembre 2024 si è tenuto, presso la nostra sede, l’incontro “Non basta dire basta! Femminicidi e orfani speciali” che ha visto tra i relatori, oltre alla sottoscritta, anche Maria Rita Parsi (psicoterapeuta e psicopedagogista di fama internazionale), Francesco Pisano (avvocato penalista e consulente legale del Progetto Respiro) e la toccante testimonianza di Renza Volpini, mamma di Jessica. La signora Volpini, oltre a fare da caregiver a suo nipote è uno dei tanti esempi di chi non ha mai ottenuto aiuto da parte dello Stato. Nonostante ciò qualcosa di sta muovendo. Oltre all’associazione Telefono Donna Italia, l’avvocato Pisano ci ha parlato del Progetto Respiro che si sta sviluppando nell’Italia insulare e nel centro-sud: un modello di intervento nato per prendere in carico e non lasciare più soli gli orfani di femminicidio, accompagnandoli in un percorso di sostegno che coinvolge non solo loro, ma anche i familiari.
Quale contributo può dare il mondo della cultura a riguardo?
La cultura non può stare zitta, perché se sta zitta si rende corresponsabile. Se parla deve dare la parola alle competenze e alle esperienze oltre che a sensibilizzare sul tema visto che, tra gli altri dati, non è trascurabile il fatto che si sia abbassata l’età media degli assassini. Sempre più sono uomini giovani ad uccidere le fidanzate, le ex-fidanzate o le compagne. La cultura è chiamata altresì a rimarcare l’importanza della parola: noi siamo gli unici animali dotati di linguaggio. Senza dimenticare la componente esistenziale, diciamo pure morale. Quando il dolore rende muti, non si attende altro che la parola che salva. Quella parola che ci restituisce la capacità di rompere il silenzio, di raccontare il nostro dolore sapendo che, dall’altro lato, c’è chi è disposto ad ascoltarci, a sostenerci, a tenderci la mano, a condividere ciò che fino ad allora era passato sotto silenzio. Nell’attuale società dell’iperconnessione, dell’indifferenza e della prestazione si assiste ad un pericoloso logorio delle relazioni umane. Con i dispositivi digitali siamo sempre più connessi, ma sempre meno prossimi, costretti, come sosteneva il grande antropologo Marc Augé, a vivere solo “promesse di relazioni” o “relazioni di superficie”. Il nostro è un mondo abitato sempre più dalle passioni tristi, da un senso diffuso di rancore e di indifferenza – monadico – e nel quale l’esibizione del corpo proprio e di quello altrui specialmente nel mondo virtuale (si pensi al crimine del revenge porn), corrisponde al venir meno della consapevolezza della propria corporeità nel mondo reale. Gli occhi non cercano di incontrare il volto dell’altro, ma sono costantemente puntati sugli smartphone, interdicendo, de facto, le relazioni di prossimità. Una società palliativa, dominata dall’infocrazia e attraversata dall’anestetizzazione della sofferenza – come ha intuito acutamente il filosofo Byung-Chul Han – che procede ostinatamente verso la progressiva espulsione dell’Altro, diventa terreno fertile per ogni forma di violenza. Dobbiamo rimettere al centro l’importanza dell’Altro. Dobbiamo diventare consapevoli di cosa significhi abitare il mondo sforzandoci di dotarci di strumenti capaci di leggere e interpretare il nostro difficile presente.