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Martedì, 02 Luglio 2024 03:45

Nel mondo liquido della realtà digitale si può provare affetto anche per un brand»

Vanni Codeluppi Professore di Sociologia dei Consumi Vanni Codeluppi Professore di Sociologia dei Consumi

Tra le molteplici forme che connotano l'attività del desiderare, vi è anche l'aspirazione a possedere oggetti e beni. Quanto questa particolare forma di desiderio sia «naturale», è difficile dirlo, se, come sosteneva Socrate, sapiente è colui che più si avvicina alla condizione del divino «perché cerca di aver bisogno di pochissimo». Ma tant' è, oggi siamo sottoposti ad un bombardamento massiccio di media e pubblicità, cui è difficile resistere. Ne abbiamo parlato con Vanni Codeluppi, che stasera interverrà sul tema a Barbariga per la rassegna «Filosofi lungo Foglio».

Professor Codeluppi: «desiderare le merci». Come si lega questa tematica al fil rouge del Festival?

Il desiderio è un sentimento decisivo nell'ambito del consumo. Le aziende cercano tradizionalmente di suscitare desiderio per le merci con vari strumenti che si sono evoluti nel tempo. Nella mia riflessione intendo concentrarmi soprattutto su due tecniche complementari, ovvero la comunicazione pubblicitaria e la strategia di marca, il cui scopo è realizzare una identità specifica e costruire una relazione coinvolgente col consumatore. Lo farò anche ripercorrendo rapidamente la storia della pubblicità, che ha progressivamente messo a punto nuovi linguaggi persuasivi ed efficaci.

Quali sono le principali strategie messe in campo ai giorni nostri?

Sono incentrate soprattutto sulla marca che oggi, con gli strumenti digitali, può sviluppare ancora più incisivamente la capacità di costruire un'identità che entra in relazione col consumatore. Il digitale è un mondo liquido, in cui tutto è in connessione, quindi le persone possono facilmente stabilire questo rapporto empatico con marche rappresentate da testimonial e personaggi famosi.

E per quanto riguarda la comunicazione pubblicitaria propriamente detta?

Bisogna distinguere due livelli della comunicazione pubblicitaria: uno di massa o popolare, presente in Italia, che non ha una cultura di marketing ad alto livello, anzi è molto arretrata sotto questo aspetto rispetto ad altri Paesi economicamente avanzati, dove brand internazionali operano sul mercato globale. Spesso, da noi, le aziende ritengono che i mezzi digitali siano sufficienti per il loro budget, ma non è così. Poi abbiamo una comunicazione più sofisticata, che non si limita a veicolare informazioni, ma che cerca di coinvolgere emotivamente e psicologicamente l'individuo e di costruire una relazione di affettività, come succede tra esseri umani: quando l'operazione riesce, la marca assume un'identità come fosse una persona, e trasmette sensazioni positive.

Quindi i social non sono così determinanti nella comunicazione pubblicitaria?

I nuovi media, specie i social, tendono ad instaurare piccoli gruppi o «bolle» e, lo dicono parecchi studi, funzionano bene nelle relazioni tra persone che già si conoscono o che la pensano allo stesso modo, per esempio in politica. Ma, dal punto di vista della capacità di un brand di costruire un rapporto di fiducia col consumatore, sono molto deboli, in quanto non c'è una vera condivisione ed un processo di arricchimento del messaggio. Parliamo, in qualche modo, di due piani diversi.

In questo momento, in cui anche il ruolo degli influencer è messo in discussione, quali consigli può dare per tutelarsi dalle sollecitazioni pubblicitarie e mediatiche?

Non credo che sia la fine degli influencer. «Influencer» è un termine ingannevole, non sta ad indicare altro che un testimonial, una figura che è esistita fin dall'Ottocento, ossia una persona competente che testimonia la bontà del prodotto e che può essere la massaia esperta nel lavaggio della biancheria o un attore, uno sportivo, uno personaggio dello spettacolo (Carosello ha fatto scuola). Gli esseri umani sono continuamente soggetti a influenze di ogni tipo. L'importante è avere gli strumenti culturali per decodificare quel che si riceve. Purtroppo si insegna ancora poco, a scuola e in università, a sviluppare un pensiero critico, che permetta di essere cittadini consapevoli e responsabili. // «Si insegna ancora poco a sviluppare un pensiero critico che crei cittadini consapevoli e responsabili» Sociologo. Vanni Codeluppi sarà ospite della rassegna oggi a Barbariga

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