Le piattaforme social non sono in grado di rimuovere il vuoto narrativo attuale Postare, mettere like, condividere amplifica il disincanto senza generare empatia e vicinanza di Francesca Nodari
Il fuoco sacro del racconto si è spento per accendere gli schermi digitali, che isolano gli esseri umani facendone dei consumatori. Le stesse storie condivise sulle piattaforme social non sono in grado di rimuovere il vuoto narrativo che domina il nostro tempo. Postare, mettere like, condividere non fanno altro che amplificare il disincanto del mondo odierno.
Sono queste le premesse che fanno da sfondo all'ultima fatica dell'acuto saggio di Byung-Chul Han intitolato: La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana. Da grande indagatore della contemporaneità, in un corpo a corpo con Benjamin,Proust, Heidegger, Kant - per citarne solo alcuni - Han mostra come le narrazioni siano diventate da tessuto connettivo delle nostre comunità e da bussole capaci di dare senso all'esistenza a una merce come tutte le altre. «Storytelling ist storyselling»: raccontare storie è vendere storie. E se da un lato, l'informatizzazione della società accelera la de-narrativizzazione; dall'altro, all'interno dello tsunami dell'informazione cresce il bisogno di senso, di identità, di orientamento.
Tra l'informazione e il racconto si dà una chiara differenza temporale: se la prima si consuma e invecchia nell'istante della sua novità, iI secondo gode di un'estensione che oltrepassa l'attimo presente. D'altro canto, raccontare richiede uno stato di distensione: la noia è l'«uccello incantato - scrive Benjamin che cova l'uovo dell'esperienza».
Il ronzio dell'informazione, «il minimo rumore nelle frasche», Io mette in fuga. Nel fruscio digitale odierno non v'è più alcun nido per l'uccello incantato: l'iperattività non permette l'emersione di una profonda distensione spirituale, l'accumulo di informazioni frammenta l'attenzione, impedisce l'indugiare contemplativo per dare corso ad una nuova forma di dominio. Si afferma il regime dell'informazione, iI quale non opera in modo repressivo, ma seduttivo. La libertà non viene repressa, ma sfruttata: si ribalta in controllo e manipolazione; i big data non sono in grado di spiegare perché le cose si connettono le une alle altre, ma il perché è sostituito da un così è. Come dire: siamo in balia di una scatola algoritmica dove gli esseri umani vengono ridotti ad un insieme di dati e lo smartphone, ben lungi dall'essere un medium narrativo, si erge a panopticon digitale. L'epoca tardo-moderna è priva di nostalgia, di visione, di lontananza, di futuro: catapultati in un vortice di attualità, siamo assediati dalle informazioni che contraggono il tempo, atomizzandolo, «nello stretto binario dell'attualità».
Ne I «passages» di Parigi, Benjamin fa notare come: «possiamo immaginare la felicità solo nell'aria che abbiamo respirato, tra le persone che hanno vissuto con noi. Nell'idea di felicità vibra [...] l'idea della redenzione». Vale a dire che «la felicità non si manifesta sotto forma di un bagliore improvviso, ma di una luce che attraversa il tempo. A essa dobbiamo Ia salvezza del passato. Salvezza che ha bisogno di una tensione narrativa capace di attirare il passato verso il presente, [...] lasciando che esso risorga nuovamente». Ora, nella tempesta della contingenza, siamo di fronte ad un'atrofia temporale dove le storie su Facebook e Instagram annunciano la fine dell'essere umano inteso come un essere che porta con sé un destino e una storia. Tali piattaforme sono dei meri medium informativi, che lavorano secondo le regole dell'addizione e non della narrazione. La memoria umana è selettiva e questo la differenzia da una banca dati che non racconta nulla in merito a chi io sia: «il Sé non è una quantità, ma una qualità». Il protagonista de La nausea di Sartre, Antoine Roquentin, dinnanzi alla nausea che gli si presenta come «la materia stessa delle cose» scopre, nel raccontare, la possibilità di fare apparire il mondo come dotato di senso: «È questo che trae in inganno la gente: un uomo è sempre un narratore di storie [...] ma bisogna scegliere: o vivere o raccontare».
Ebbene, è proprio da questa scissione che scaturisce la crisi della narrazione. Nella società della trasparenza, dei selfie, dei like, la vita è nuda e sconfina nell'osceno, «il contesto di connessioni che istituisce il senso delle cose cede il passo a un essereuno-accanto-all'altro o a un esser-uno-dopo-I'altro di eventi svuotati di senso». Le cose perdono il loro incanto, sono senza aura, mentre la memoria de-narrativizzata assomiglia alla «bottega di un rigattiere». Non solo, oggi lo schermo allontana la realtà offrendola nella forma dell'immagine.
Il touch-screen innesca come effetto la sua completa sparizione, nel suo aspetto «di volto che ci sta dinnanzi»: proprio perché il volto ha perso il suo sguardo, allora diventa possibile cliccare con il dito sull'immagine di una persona o finanche cancellarla. Lo smartphone accelera il processo di espulsione dell'Altro. Il digitale destruttura il reale e sostituisce il simbolico con l'immaginario, conducendo all'erosione della comunità.
Oggi abbiamo smarrito, persino, il valore terapeutico della prassi narrativa, viviamo in una società in cui il contatto è assente, l'ascoltare - che «non è condizione passiva, ma un fare attivo» - è bandito e in cui la povertà di esperienza significa una povertà di mondo. Le storie sui social media, che in verità non sono altro che la messa in mostra di sé, isolano gli esseri umani: a differenza dei racconti, non creano né vicinanza, né empatia. Esse «non raccontano nulla, ma pubblicizzano». L'Homo Narrans cede il passo al Phono Sapiens imprigionato nella formula che meglio esprime l'attuale crisi della narrazione: «vivere o postare».
Byung-Chul Han
La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana
Einaudi