Argomento «scabroso, impensabile» l'ha definito Recalcati, che l'ha saputo affrontare con delicatezza, in una lezione a tratti emozionante. Una constatazione è ineludibile: «Quando qualcuno entra nel regno dei morti, si separa in modo irreversibile dal regno dei vivi. La morte implica l'esperienza definitiva dell'assenza, una perdita che non conosce ritorno». Per questo motivo, gli esseri umani hanno cercato in tutti i modi di costruire un ponte fra i due regni: «L'uomo è l'unico animale che prega, cercando in questo modo di stabilire un contatto con l'anima di chi non è più qui. E siamo gli unici che sentono la necessità del sepolcro. L'"urna confortata di pianto" ci dà la possibilità di pensare che esista un legame tra i due mondi».
Con la perdita di una persona cara scompare anche il nostro mondo, fatto di abitudini condivise. Ogni atto quotidiano, improvvisamente, non ha più senso. È un dolore profondo, per affrontare il quale andiamo incontro a tre possibili destini. «Il primo è melanconico: rimaniamo traumatizzati, non riusciamo a dare senso alla perdita che ci lascia immobilizzati. Non ci stacchiamo da chi abbiamo perduto, restiamo pietrificati. L'assenza dell'oggetto è la forma della sua vita presente nel soggetto».
La reazione opposta è quella maniacale. «L'oggetto perduto è sostituito immediatamente, con una forma di negazionismo. L'abbiamo visto anche col Covid: le bare di Bergamo non sono mai esistite, la p andemia è un'invenzione... Anziché riconoscere l'orrore che c'è stato, la reazione maniacale lo nega». Questa maniacalità, la frenesia che spinge a passare da un oggetto all'altro, è caratteristica del nostro tempo, che «rigetta il lutto e ha fatto della morte un'oscenità». C'è infine un terzo e diverso destino, quello del «lavoro del lutto». È «un'attività trasformatrice» che richiede tempo e l'attraversamento di un dolore «che coinvolge tutta la nostra esistenza». Serve inoltre memoria, siamo sommersi dai ricordi. Una fase di elaborazione indispensabile: «Fino a quando, a un certo punto, mi accorgo che non sono più schiacciato da un peso, che la miavita ha riacquisito leggerezza, che mi sono cioè separato da chi non è più qui».
Separazione, tuttavia, non significa cancellazione. In un noto passo di Nietzsche, Zarathustra depone nel cavo di un albero il corpo di un acrobata caduto: «C'è lavoro del lutto affer- ma Recalcati quando trasformiamo il corpo morto di chi abbiamo perduto in linfa che dà vita all'albero». Possiamo farlo se sappiamo sfuggire a quella forma di nostalgia che sfocia nel rimpianto: «Pensiamo a tutte le esperienze vissute in passato. Rimpiangiamo e idealizziamo quello che abbiamo vissuto, ma non possiamo più recuperarlo. Lo sguardo si rivolge all'indietro e mentre lo fa dimentica di vivere nel presente».
Bisogna invece affidarsi a una seconda forma della nostalgia, la «nostalgia-gratitudine». Recalcati la definisce «una visitazione, qualcosa che ci raggiunge. Quando vediamo le stelle, la loro luce proviene da corpi celesti morti milioni di anni fa. È quello che accade con le perdite della nostra vita: a volte si rivelano come fossero luce delle stelle morte». Chi è scomparso può continuare dentro di noi a generare luce: «Questa è la gratitudine: benedire tutto ciò che è stato, perché tutto quello che ho vissuto, nelbene e nel male, è ciò che io sono.