Una delle principali cause della volgarità di oggi, secondo Dionigi davvero, come sosteneva Nietzsche rivolgendosi ai filologi, un «orafo della parola» è ravvisabile proprio nell'incuria della parola. Come sosteneva Platone nel Fedone, parlare male, oltre ad essere una cosa brutta, nuoce all'anima.
Avvertiamo il bisogno di un'ecologia linguistica che restituisca alla parola il potere di illuminare la realtà. La tradizione ci consegna un'eredità da conquistare e da capitalizzare, tendendo fede all'insegnamento di Agostino secondo il quale occorre intendere la parola come segno indissolubilmente legato al suo senso. Saturi di presente e afflitti da ciò che Eliot chiama «provincialismo del tempo», dimentichi dei padri, noncuranti dei posteri, ci crediamo gli unici detentori delle azioni di quel capitale che si chiama vita.
Il tempo, come ha ricordato Papa Francesco, è superiore allo spazio, perché è la nostra dimensione costitutiva: personale e sociale. A pagare il prezzo più alto di questa cesura sono i giovani, i quali trovano staccatala spina della storia e scontano l'impatto di una mera simultaneità, risucchiati nell'«inferno dell'Uguale».
La parola, creatura e creatrice, è un sovrano «che tutto può» scrive Gorgia. Non solo, tutta la nostra vita non sarebbe altro che «una battaglia di lögoi» , cioè di parole e di ragioni contrapposte. Tutta l'ambiguità, spiega Dionigi, sta nella definizione gorgiana della parola come phármakon, dal duplice significato di «medicina» e di «veleno». Questa natura benedetta e maledetta della parola, simbolica e diabolica caratterizza l'identità personale di ciascuno e sembra investire addirittura il mistero divino: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal. 62,12) E proprio quando questa parola si piega agli usi e agli abusi del potere, quando una civiltà che ha fatto del linguaggio il proprio fondamento, prende a dubitare del linguaggio stesso, il dramma non è lontano.
Conosciamo la parola poetica che da Teognide a Orazio proclama il proprio canto mortale, la parola solitaria di Antigone che si appella alle leggi non scritte del sangue; la parola potente e sovrana dei sofisti; la parola della «democratica» Atene che prima e ancor più della cicuta uccide Socrate, apostolo del sapere; la parola seducente del retore che, secondo Platone, prevale sulla parola competente del medico perché il popolo preferisce la consolazione alla verità; la parola veridica e salvifica di Epicuro che, per Lucrezio, sconfigge i mostri interni della paura, dell'ignoranza e della passione; la parola politica che, per Cicerone, affidata agli eloquentes, gli oratori, provvisti di saggezza, salva la patria, ma affidata ai disertissimi, i demagoghi, ne decreta la rovina. Eppure, oggi, le parole si fanno cadaveriche. Indossano maschere. Si pensi ai tanti neologismi: legge di mercato per «sfruttamento», flessibilità per «disoccupazione», economia sommersa per «lavoro nero». Abbiamq sostituito il maestro con l'influencer e con il coach, il discepolo con il follower; lo statista con il leader, il volto con la «faccia».
«Siamo allo stupro della parola: abbiamo ridotto la dignità a un "decreto", la politica a un "contratto", la pace a un "condono fiscale"; abbiamo identificato lo straniero con il "nemico", il rifugiato con il "clandestino"» al punto che «abbiamo dimenticato che patria è un aggettivo nobile e universale che indica: "la terra ereditata dai padri"».
Eppure, la parola, compie il miracolo di avviarci alla verità per via storica attraverso la filologia, per via linguistica attraverso l'etimologia, per via filosofica grazie al pensiero. Alle parole, dotate di identità e di storia, «non si può torcere il collo»; piuttosto, come scriveva Elias Canetti, occorre «accucciarsi con rispetto e devozione» nella consapevolezza che «il linguaggio non è un fenomeno del singolo parlante, ma storico e sociale: più che parlare, noi siamo parlati ed esistiamo perché gli altri ci nominano».
Secondo Dionigi, come per Lucrezio che crea parole nuove (nova verba) durante le notti stellate, anche per noi oggi si impone la necessità di dare vita a parole che siano in grado di nominare questo presente. Dionigi ne individua tre: contestazione. È questo il tempo in cui tutti dovremmo contestare ossia «essere insieme (cum) testimoni (testis)» di «ciò che di bello, di giusto e di vero sperimentiamo; e ciò che di brutto, di ingiusto e di non vero mettiamo in atto».
Segue l'essere fratelli «più forte di essere consanguinei, più impegnativo che essere cittadini, più nobile che essere uomini». Frater fere alter: «il fratello, quasi un altro me stesso», ammoniva il grammatico Nigidio Figulo.
Infine Pentecoste che, facendo segno al «miracolo traduttivo» narrato negli Atti degli apostoli (2,1-11), invoca una sorta di Pentecoste laica che ci consenta di comprenderci restando ciascuno fedele alla propria lingua e seguendo l'unica via possibile: quella del dialogo. Lo intuì bene già Don Milani allorché affermò: «la parola è la chiave fatata che apre ogni porta».