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Mercoledì, 08 Giugno 2022 16:02

Perché Gesù ama i peccatori? La risposta di un monaco di Bose

Ludwig Monti, biblista Ludwig Monti, biblista

Anticipiamo l'intervento del biblista Ludwing Monti dal titolo “Quando Gesù dice Io” che sarà pronunciata il 4 luglio a Cazzago San Martino (Brescia) nel Giardino di Palazzo Secco d'Aragona nell'ambito della XVII edizione di Filosofi lungo l’Oglio, il festival organizzato dall’omonima Fondazione, presieduta dalla filosofa Francesca Nodari, quest’anno dedicato al tema “Dire IO”,in programma dal 10 giugno al 31 luglio, itinerante in 24 municipalità tra le province di Brescia, Bergamo e Cremona.

“Voi chi dite che io sia?”. È una delle più note domande di Gesù, rivolta ai discepoli al cuore della salita a Gerusalemme, al centro del vangelo secondo Marco (Mc 8,29) e poi ripresa dagli altri sinottici (Mt 16,15; Lc 9,20).

Gesù non è autoreferenziale, ma desidera che siano altri a definirlo, in particolare chi gli è più vicino. Conosciamo la risposta di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Messia”. Ma qual è la sua personale autocoscienza? Cosa pensava Gesù di sé, del suo “io”? Per rispondere a questo ulteriore interrogativo (che coinvolge, per intenderci, anche la spinosa questione della “fede di Gesù”), si possono battere numerosi sentieri. Mi limito a indicarne due, iniziando a percorrerne uno.

In primo luogo, si potrebbero analizzare i sette passi del vangelo secondo Giovanni in cui Gesù afferma “Io sono”: il pane della vita; la luce del mondo; la porta delle pecore; il buon pastore; la risurrezione e la vita; la via, la verità e la vita; la vite vera. Si tratta però di brani altamente simbolici, che necessiterebbero di una dettagliata chiarificazione.

Preferisco perciò reperire l’“io” di Gesù e il senso da lui attribuito alla sua vita, secondo una categoria oggi eloquente, mediante il ricorso ai passi – curiosamente sempre sette! – in cui nei vangeli sinottici egli afferma: “Sono venuto per”, o anche “Il Figlio dell’uomo è venuto per”. Ecco la sua autocoscienza: per quale scopo e con quale stile è vissuto nel mondo?

A ogni lettore o lettrice affido il compito di cercare questi passi e di interpretarli. Vorrei solo accennare al primo, davvero preliminare: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2,17). Perché Gesù amava la compagnia dei peccatori pubblici, preferendola a quella dei pretesi impeccabili, dei “giusti incalliti”, scandalizzati da questa scelta? Perché sapeva che ogni umano è peccatore, ma chi lo è in modo pubblicamente riconosciuto non può nascondersi e perciò, spinto dalla vergogna per l’essere additato a scherno, non ha nulla da perdere: può ricominciare, riconoscendo il proprio errore, la propria “malattia”, disponendosi a invertire la rotta. Ovvero, ad accogliere il perdono preveniente di Dio e a cambiare comportamento, nelle relazioni con gli altri.

Detto altrimenti: è più grave un peccato pubblico o un vizio gelosamente nascosto e coltivato con ipocrita doppiezza? Insomma, Gesù ritiene che la strada privilegiata per conoscere Dio è l’essere consapevoli della propria qualità di peccatori. Il peccato in cui cadiamo è la vera occasione per fare esperienza del Padre e aprirci alla sua misericordia preveniente. Come canta il salmista: “Io riconosco la mia colpa, il mio peccato mi è sempre davanti … Crea in me, o Dio, un cuore puro, … ridonami la gioia d’essere salvato” (Sal 51,5.12.14).

O come ha scritto, con parole fulminanti, un antico padre della chiesa: “Colui che riconosce i propri peccati è più grande di colui che risuscita i morti” (Isacco di Ninive). Non è mai tardi per aprire porte e finestre al fresco profumo di questa buona notizia. Ed è solo l’inizio, imprescindibile, nel cammino di conoscenza dell’“io” di Gesù.



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