“Voi chi dite che io sia?”. È una delle più note domande di Gesù, rivolta ai discepoli al cuore della salita a Gerusalemme, al centro del vangelo secondo Marco (Mc 8,29) e poi ripresa dagli altri sinottici (Mt 16,15; Lc 9,20).
Gesù non è autoreferenziale, ma desidera che siano altri a definirlo, in particolare chi gli è più vicino. Conosciamo la risposta di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Messia”. Ma qual è la sua personale autocoscienza? Cosa pensava Gesù di sé, del suo “io”? Per rispondere a questo ulteriore interrogativo (che coinvolge, per intenderci, anche la spinosa questione della “fede di Gesù”), si possono battere numerosi sentieri. Mi limito a indicarne due, iniziando a percorrerne uno.
In primo luogo, si potrebbero analizzare i sette passi del vangelo secondo Giovanni in cui Gesù afferma “Io sono”: il pane della vita; la luce del mondo; la porta delle pecore; il buon pastore; la risurrezione e la vita; la via, la verità e la vita; la vite vera. Si tratta però di brani altamente simbolici, che necessiterebbero di una dettagliata chiarificazione.
Preferisco perciò reperire l’“io” di Gesù e il senso da lui attribuito alla sua vita, secondo una categoria oggi eloquente, mediante il ricorso ai passi – curiosamente sempre sette! – in cui nei vangeli sinottici egli afferma: “Sono venuto per”, o anche “Il Figlio dell’uomo è venuto per”. Ecco la sua autocoscienza: per quale scopo e con quale stile è vissuto nel mondo?
A ogni lettore o lettrice affido il compito di cercare questi passi e di interpretarli. Vorrei solo accennare al primo, davvero preliminare: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2,17). Perché Gesù amava la compagnia dei peccatori pubblici, preferendola a quella dei pretesi impeccabili, dei “giusti incalliti”, scandalizzati da questa scelta? Perché sapeva che ogni umano è peccatore, ma chi lo è in modo pubblicamente riconosciuto non può nascondersi e perciò, spinto dalla vergogna per l’essere additato a scherno, non ha nulla da perdere: può ricominciare, riconoscendo il proprio errore, la propria “malattia”, disponendosi a invertire la rotta. Ovvero, ad accogliere il perdono preveniente di Dio e a cambiare comportamento, nelle relazioni con gli altri.
Detto altrimenti: è più grave un peccato pubblico o un vizio gelosamente nascosto e coltivato con ipocrita doppiezza? Insomma, Gesù ritiene che la strada privilegiata per conoscere Dio è l’essere consapevoli della propria qualità di peccatori. Il peccato in cui cadiamo è la vera occasione per fare esperienza del Padre e aprirci alla sua misericordia preveniente. Come canta il salmista: “Io riconosco la mia colpa, il mio peccato mi è sempre davanti … Crea in me, o Dio, un cuore puro, … ridonami la gioia d’essere salvato” (Sal 51,5.12.14).
O come ha scritto, con parole fulminanti, un antico padre della chiesa: “Colui che riconosce i propri peccati è più grande di colui che risuscita i morti” (Isacco di Ninive). Non è mai tardi per aprire porte e finestre al fresco profumo di questa buona notizia. Ed è solo l’inizio, imprescindibile, nel cammino di conoscenza dell’“io” di Gesù.