Nato a Parigi nel 1947 da genitori ebrei di origine polacca sopravvissuti ad Auschwitz, oltre che matematico e psicoanalista Baharier è un autorevole interprete delle pagine bibliche: tra il 2006 e il 2007, presso il Teatro Dal Verme di Milano - la città in cui abita -, aveva dedicato a questo argomento una serie di lezioni che registrarono ogni volta, con pubblico pagante, il tutto esaurito. Tra le pubblicazioni più recenti di Baharier, «Generare è rispondere o domandare?» (Mimesis, pp. 64 con un'introduzione di Francesca Nodari, 7 euro, ebook a 4,99 euro) raccoglie i testi di due interventi nelle scorse edizioni del festival «Filosofi lungo l'Oglio».
Per la stessa rassegna, che quest'anno ha come tema «Eros e Thànatos», domani alle 21 Haim Baharier sarà a Bergamo Alta, nella Basilica di Santa Maria Maggiore: «Thànatos è il nulla?» il titolo, in forma di domanda, della sua lectio (ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili, nel rispetto delle norme anti-Covid; per ulteriori informazioni, scrivere all'indirizzo e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).
«Da Freud in avanti - spiega Baharier - Thànatos, la pulsione di morte, è stata pensata in un rapporto dialettico con Eros, l'istinto di vita. Nella tradizione ebraica però le cose non funzionano esattamente in questo modo: la pulsione di morte non fa propriamente parte della vita, non abita al suo interno e dunque, in questo senso, può essere definita "un nulla". Il grande problema che allora si pone è di come evitare che Thànatos invada un campo non suo, quello dellavita, e lo contamini, spegnendo ogni gioia, ogni capacità di protendersi nel futuro».
L'ebraismo ha trovato dei modi per prevenire questa contaminazione?
«Pensiamo ai riti funebri: nell'ebraismo, dopo che uno è morto il suo corpo viene lavato e tumulato, ma questo è tutto. Certamente, la persona defunta viene ricordata dai parenti e dagli amici nell'anniversario della sua scomparsa, ma non si va oltre: non si praticano, come avviene in altre tradizioni, dei rituali volti a favorire uno "scambio" di tipo magico tra i vivi e i morti. Si vuole evitare una confusione che comporterebbe uno stato di impurità».
Comune all'ebraismo e al cristianesimo è l'idea che l'esperienza della morte abbia fatto seguito a una «caduta»: nel capitolo 3 di Genesi si racconta che Adamo ed Eva, in Eden, avrebbero ignorato la raccomandazione di Dio di non mangiare «dell'albero della conoscenza del bene e del male».
«C'è un midrash, un commento parafrasi di questo brano biblico: racconta che nel "rifugio di Eden" (è molto meglio tradurre il termine gan con "rifugio", anziché con "giardino") vigeva una condizione non di immortalità, ma di "amortalità". Adamo, secondo la tradizione ebraica, sarebbe stato creato poche ore prima dell'inizio dello Shabbàt e di lì a poco avrebbe appunto dovuto lasciare il rifugio in cui inizialmente era stato posto. Con questa uscita termina l'amortalità, ossia quello stato in cui ancora non vi era consapevolezza della morte. A tale condizione di partenza subentra il dispositivo della "trasmissione" tra le generazioni».
Con questa trasmissione ha inizio la storia, in senso proprio?
«Sì, ha inizio la storia in quanto storia umana. L'ebraico biblico è una lingua povera, con un numero limitato di vocaboli: significa, comunica attraverso le sue carenze. Per esempio, non include un termine equivalente a "storia"; al posto di questa parola troviamo toledòt, "generazioni". La storia, secondo la Bibbia, procede appunto grazie alla capacità degli esseri umani di far nascere, di donare ad altri la vita».
Al di là dell'aspetto biologico, questo processo di trasmissione non richiede uno sforzo di consapevolezza? I n «Generare è rispondere o domandare?»a bbiamo trovato una frase molto bella: «Pensare è scommettere sulla domanda contro il destino». Interrogarsi, cercare di capire è un modo di resistere alla stanchezza, al la sfiducia, al «si vede che doveva andare così»?
«Purché il pensiero non si riduca a chiacchiera da bar, rischio a cui si è sempre esposti. Per evitarlo, bisogna imparare a farsi piccoli, a "retrocedere": nelle più diverse circostanze anche quando uno dei miei nipoti mi pone una domanda-, per prima cosa è opportuno che io faccia un passo indietro. Nella tradizione della qabbalàh questo atteggiamento è indicato con la parola tzimtzùm, "ritrazione": solo ritirandomi posso garantire uno spazio di libertà per l'altro; solo agendo in questo modo, rispettando l'altrui identità, si può limitare quel determinismo che in molti casi sembrerebbe dominare le situazioni e gli eventi dell'esistenza umana».