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Domenica, 12 Luglio 2020 01:06

Una splendida oscurità che illumina il buio. Francesca Rigotti invita a tornare a contemplare la notte.

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Troppa luce sulla terra? Siamo all'inizio dell'eliminazione del buio come fosse non-essere, mancanza, privazione? L'impiego ossessivo di impianti di illuminazione e il ricorso notte-giorno alla luce artificiale non sono forse il segno che stiamo immolando l'oscurità?

Risponde a questi e a molti altri interrogativi Buio, il pregevole saggio di Francesca Rigotti. L'obiettivo dell'autrice è molto chiaro: restituire al buio l'antico stato di pienezza, la sua irrinunciabile sostanza praticandone un ritorno non-ingenuo attraverso Parmenide, Omero, Esiodo perché le tenebre tornino ad essere così le definisce Mircea Eliade «somma di virtualità e di semenza».

Come spiega Michel Pastoureau l'etimologia del colore che lo designa, il nero, si evince da due termini del vocabolario indoeuropeo: blaek e blank, collegati al verbo germanico blik-an, che vuol dire «splendere».

Come a dire che dall'oscurità si sprigiona una luce abbacinante, che la notte stessa fa uscire la luce come nel mito ebraico di Genesi 1, che «tra le pieghe dell'oscurità si annidano le idee, come bambini della notte, che prima di uscire alla luce, se ne stanno al buio nell'utero materno», «tant'è che la capacità di "gestare" incuba- re e generare può essere assunta quale modello per la creatività delle opere dell'ingegno» (ricordiamo, in proposito, il fortunato saggio della Rigotti, Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità, Bollati Boringhieri 2010).

Francesca Rigotti, rifacendosi a Maria Zambrano, ci invita a tornare a contemplare la notte, i suoi «infiniti occhi interiori», per richiamare gli Inni alla notte di Novalis. Come non rammentare il cantico biblico dei tre giovani nella fornace ove si invitano notte e tenebre a lodare il Signore? (Dn 3, 71-72) E non è forse evocativa la capacità fecondatrice che la lingua semitica riconosce all'ombra? Ora, non solo il buio da burius, «colore rosso-nerastro di cosa arsa bruciata del sonno» è «sollievo e riposo», ma è salvifico come avviene in Es 12,42 allorché il Signore fa uscire gli ebrei dall'Egitto.

Una sorta di sollevazione del cielo che rinvia, nella rappresentazione cristiana, alle notti sante della nascita e della Resurrezione di Cristo Na- tale e Pasqua. Ma il buio è anche luminoso: troppa luce acceca favorendo una visione non chiara, uno sbaglio, una svista. L'intuizione è confermata dall'etimologia: blenden è il verbo tedesco per «abbagliare» e Blendung, il sostantivo derivato, che significa «abbagliamento» e «abbaglio» ovvero errore. Per spiegare questa oscurità luminosa, più profonda della luce stessa, Rigotti si rifà a due strutture narrative fondanti quali il mito della caverna di Platone e l'incontro di Mosé con Dio sul Sinai.

Ora, «l'uso pervasivo della vista quale metafora della conoscenza avverte la filosofa incide profondamente sull'interpretazione del mondo». In questo siamo fedeli alla cultura greca immersa nella luce. Basti constatare l'affinità dei verbi idéin («vedere») e eidénaí («conoscere»): sapere non significa altro che aver visto. «Oida», risponde Edipo, già accecatosi, per aver visto/ saputo troppo.

In Platone la verità e l'essere illuminano alla stregua della luce v'è una circolarità tra vero, buono e giusto così come nel Vangelo di Giovanni il principio duale luce/tenebre è centrale: si pensi al passo «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12), seguito dall'episodio del cieco nato al quale Gesù dona la vista. Nella stessa teologia cristiana, il peccato si configura come «privazione della luce dell'anima» (Summa Theologiae 1, I, q. 86, a. 1) e il passaggio dalle tenebre alla luce indica il transito dal peccato alla salvezza. In questa insistenza nell'adempiere a ciò che Max Weber chiamò «il compito del giorno» assistiamo impotenti al «buicidio»: di contro allavirile luminosità del giorno, il buio è assenza, ignoranza, male. Rischia di essere appiattito alla manzoniana «notte dei sotterfugi e degli imbrogli», all'oscurità narrata nei poemi omerici in cui si fanno incursioni notturne come avvenne per Odisseo e Diomede per portar via il Palladio osi compiono missioni come quella in cui gli stessi guerrieri fanno strage di Reso e dei suoi compagni Traci. All'oscurità dei delatori, delle spie - la stessa Dolone, il corvus loquax di Ovidio -, della menzogna come quella di Pietro che rinnegherà per ben tre volte Gesù, prima che il gallo canti (Lc 22, 54-62). V'è poi il buio della vergogna, della paura così come emerge quello dell'introspezione e della concentrazione. Il buio legato al misticismo: dai misteri eleusini alle meditazioni sulla notte oscura dell'anima di San Giovanni della Croce. Il buio della cecità e della preveggenza. Si pensi a Tiresia, l'indovino interrogato da Edipo, l'unico che può annunciare profezie a Odisseo, il solo che «nel regno dei morti sa parlare e pensare con paradossale chiarezza».

Grande alleato del buio è il silenzio. L'autrice fa notare come, anche in questo caso, benché esso venga collocato nel regno delle tenebre, esso sia complementare alla parola così come il buio alla luce. In questa società, come nota Jonathan Crary, del 24/7 cioè attiva 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 dove viene meno la distinzione tra giorno e notte, attività e riposo «a favore di uno stato di sospensione» perenne, dove «il giorno è, nel comune modo di esprimersi, lo spazio di ventiquattr'ore», ma «è anche l'intervallo di tempo che corre tra il sorgere e il tramontare apparente del sole», mentre «la notte è soltanto il tempo che va dal tramontare al sorgere del sole» al punto che, come scrive Gérard Genette, si dà una dissimmetria semantica tale da farci dire che abbiamo un «archigiorno», occorre ridare dignità al buio. Di più, versus l'effettiva mascolinizzazione del giorno e femminilizzazione della notte, concludere non solo che il buio è, ed è bello, ma anche affermare con Kant che «sublime è la notte».

BUIO
Francesca Rigotti
il Mulino, Bologna



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