Come osserva il sociologo Vanni Codeluppi, viviamo «vite di corsa o in vetrina». Si illude chi si aggrappa alla Rete: quelle stabilite da Internet sono soltanto «promesse di relazione» che nascondono il dramma della solitudine.
Da dove ripartire a fondare un percorso che dia significato alle nostre vite e speranza al nostro futuro? Francesca Nodari, ideatrice e direttrice del fortunato «Festival filosofi lungo l'Oglio», offre una risposta paradossale: bisogna ripartire dal pensiero di un filosofo ebreo lituano che trascorse cinque anni della sua vita, durante la Seconda Guerra mondiale, nei lager tedeschi. Bisogna ripartire dall'opera vasta di Emanuel Levinas, e dai suoi «Quaderni della prigionia», per uscire dall'angoscia del presente.
La riflessione di Francesca Nodari è affidata a un testo complesso e avvincente, ispido e coinvolgente, difficile e interrogante fin dal titolo: «Temporalità e umanità. La diacronia in Emmanuel Levinas» (Giuntina, pp. 288, euro 15). La lettura del testo comporta un autentico corpo a corpo con pagine della filosofia classica, ebraica e contemporanea, da Derrida ad Aristotele, da Simmel a Mauss, da Augè a Blanchot, da Casper a Rosenzweig a Heidegger.
Le premesse sono fosche: la politica non disegna il futuro ma è derubricata a gestionedei consumi e dei servizi, l'Altro è diventato un'ossessione. «Non sarà che la paura della vita ha rimpiazzato la paura della moere?» si chiede Augè. «L'inferno sono gli altri» sintetizzerebbe Sartre.
Levinas (e Nodari) sovvertono questa prospettiva: l'umanità salvata si decide nell'incontro con l'Altro e vive il proprio riscatto assumendo fino in fondo un «groviglio di responsabilità". La stessa conoscenza scarurisce dalla parola detta (nella gratuità) da un maestro, da una «ragione che parla». In questo senso l'insegnamento «non è maieutica» (non è cavare dal discepolo un Assoluto che avrebbe già dentro di sé) ma conquista dia-logica.
L'indifferenza (e a maggior ragione l'ostilità) verso l'Altro viene rigettata: c'è un «Io di carne e sangue» (espressione tipicamente levinasiana), alieno dalle astrazioni di certa filosofia, chiamato a «riparare il presente».
La dignità dell'uomo non sta nella sua solitudine, nell'autonomia pensata in modo astratto, ma nel sentirsi implicato dall'altro e dalla sua sorte. Certo, «la dignità è un fardello», come recita un proverbio tedesco, ma c'è un «dovere felice di amare l'altro».
Nasce da lì la Misericordia, asse portante del pensiero e del magistero di Papa Francesco che, alla luce di queste premesse, non appare più il pastore buono ma lievemente ingenuo di certa pubblicistica, ma un grande del pensiero contemporaneo che ricorda all'uomo la sua vocazione a «sentirsi toccato il cuore dall'Altro».
Questo, dice la Evangelii Gaudium, è dunque il momento «per iniziare processi più che possedere spazi»: «C'è un kairòs, un tempo opportuno, proprio perché la nostra società planetaria è abitata da un'umanità ferita».
La diacronia su cui poggia il pensiero di Levinas è la chiave d'accesso a questa visione iper-moderna eppure antica. Perché, come recitava un detto rabbinico, «non spetta a te portare a termine l'opera, ma non sei nemmeno libero di sottrartene».