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Sabato, 17 Marzo 2018 04:28

Umanità senza tatto

Marc Augè Marc Augè

Vi è un'intima sapienza nel gesto così umano del toccare. Il tatto è il senso che Aristotele definisce come il più potente dei cinque, quello che ci pone a diretto contatto con ciò che vogliamo conoscere. Ma il tatto è anche il senso che, per la sua esibita vocazione alla corporeità, la cultura occidentale ha pregiudizievolmente penalizzato nel corso dei secoli, in nome di un dualismo che ha enfatizzato la vista quale rappresentante sensoriale privilegiato dell'intelletto e della cognizione cosiddetta «superiore».

L'umanità odierna è ossessionata dal vedere, impegnata in un voyerismo mediatico senza tregua, che è una delle estreme conseguenze di una società iper razionalistica, che ha anche reso il corpo un oggetto di culto e di consumo.

È un'umanità dimentica della vocazione più autenticamente umana, quella del saper toccare. Il tema è affrontato da Marc Augé in una breve e importante riflessione tra antropologia e fenomenologia, introdotta da Francesca Nodari: Saper toccare. La metafora del tatto è presente in molti ambiti della vita riferibili alle emozioni - si pensi a espressioni quali «toccare le corde profonde dell'anima» -, e la stessa retorica antica basava la sua forza proprio sul sapere commuovere, con un discorso, l'uditorio: cioè saper «muovere» (rnóvere) l'ascoltatore mediante un «tocco» espressivo vigoroso (ékplexis) che arrivava a «colpirne» l'immaginazione e farne vacillare l'emotività.

Augé insiste sulla continuità tra il valore simbolico e quello puramente corporeo del tatto: rifacendosi alle riflessioni di Jean-Luc Nancy, sottolinea come, a livello antropologico, il gesto del toccare sia assolutamente necessario alla costituzione dell'identità individuale, che si costruisce a partire dalla presa di coscienza dell'effettiva esistenza dell'altro. Come nel celebre dipinto di Caravaggio, L'incredulità di Tommaso, nel quale vediamo l'apostolo dubbioso toccare spudoratamente la carne del Cristo col dito, verificare fisicamente la presenza corporea dell'altro mediante il tocco è la prova definitiva della nostra esistenza umana. La cultura occidentale ha sempre sentito il bisogno di esprimersi mediante la corporeità quale cifra imprescindibile, al punto che persino la mistica cristiana - si pensi a Teresa d'Avila - ha voluto percepire la presenza di Dio proprio nella carne dei santi in estasi. Tuttavia, nella nostra contemporaneità, che Augé definisce surmodernità, gli individui sono immessi in un meccanismo sociale complesso che genera eccessi e nel consumo e nell'abuso mediatico. Gli stessi individui, smarriti in uno spazio non più sentito come sociale - i «nonluoghi» - e in un tempo perennemente al presente - quello del web -, si trasformano in monadi isolate sempre meno capaci di instaurare relazioni autentiche che non siano virtuali, incapaci quindi di «farsi toccare» anche nell'emotività dalle evidenti e profonde diseguaglianze presenti e ininterrottamente mostrate dai media. La straordinaria evoluzione della tecnologia mediatica starebbe, oltretutto, acuendo un processo di individualizzazione narcisistica nella società globale, generando sempre più persone anestetizzate e meno consapevoli dell'altro e delle sue esigenze. All'arte, oltre che alla filosofia, spetta il ruolo critico e di inversione di tendenza. Significativo, in tal senso, un film amaramente ironico come The Square (Ruben Óstlund, 2017), in cui la creazione di un'opera d'arte concettuale invisibile, quindi intoccabile, diviene l'emblema di una società tanto benestante quanto incapace di farsi toccare da sentimenti di vera compassione umana.


Marc Augé, Saper toccare, a cura di F. Nodari, Mimesis, Milano, pagg.5o, € 4


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