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Sabato, 25 Novembre 2017 20:02

Violenza sulle donne, basta stereotipi

In un modo appiattito sul proprio presente «il cui improvviso sorgere fa sparire il passato e satura l’immaginazione del futuro» come insegna l’antropologo Marc Augé, nell’era della cosmotecnologia il cui paradigma si chiama consumo e dove il confine tra reale e virtuale è assai labile, in un tempo in cui le fake news sono all’ordine del giorno, interrogarsi sugli stereotipi di genere allorché si parla di violenza contro le donne può essere un modo fattivo per contrastare, almeno in parte, il darsi di un pericoloso circolo vizioso. Negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1.740, di cui 1.251 (il 71,9%) in famiglia. Solo nel 2016 ne sono state uccise 120 ed anche nel 2017 la media è di una vittima ogni tre giorni.

Secondo l’Istat, sono 3 milioni e 466 mila in Italia, le donne che nell'arco della propria vita hanno subito stalking, ovvero atti persecutori da parte di qualcuno, il 16% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Di queste, 2 milioni e 151 mila sono le vittime di comportamenti persecutori dell'ex partner.

Dinnanzi a questo quadro allarmante – come attesta il Manifesto di Venezia – varatodalla Commissione pari opportunità della Fnsi in collaborazione con la Cpo Usigrai e GiULiA Giornaliste è necessario riportare al centro del dibattito la questione del linguaggio e di una corretta informazione sull’argomento come chiede la stessa Convenzione di Instanbul. Il termine femminicidio è stato introdotto per la prima volta da Diane Russel nel 1992 – lo stesso anno in cui Augé coniò l’espressione di «non-lieux» –, la quale nel libro Femicide: The Politics of woman killing, attraverso l’utilizzo di questa nuova categoria criminologica, “nomina” la causa principale degli omicidi nei confronti delle donne:una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna». In seguito, la teoria venne ripresa dalle sociologhe e antropologhe messicane – su tutte, Marcela Lagarde – per analizzare i fatti di Ciudad Juarez e venne adottata per descrivere non solo le uccisioni di genere, ma ogni forma di violenza e discriminazione contro la donna «in quanto donna».

Ora, se lo stereotipo è una forma semplificata di descrivere una realtà complessa, il rischio cui espone il sedimentarsi di una tale semplificazione, nello specifico quando viene applicata ai rapporti tra generi, è quello di fissarla in luoghi comuni. Luoghi comuni che, reiterati nel tempo, rischiano di veicolare messaggi falsi e cattive interpretazioni della realtà. È errato, ad esempio, considerare il femminicidio un’emergenza, tutt’al contrario si tratta: a)di un fenomeno strutturale; b) trasversale a culture e società diverse tra loro; c) di un fatto che affonda le sue radici nel rapporto diseguale di potere tra uomini e donne; d) di un qualcosa di prevedibile.

Di qui i luoghi comuni legati al movente, alle attenuanti, al contesto. È quanto mai fallace, ad esempio, ricorrere nella narrazione di simili fenomeni a elementi che riguardano l’amore romantico. Il crimine, anziché essere descritto come l’epifania stessa della violenza, del potere e del possesso, è spesso categorizzato come un atto incontrollato e imprevedibile. Gli assassini visti come uomini mossi da sentimenti di gelosia, di passione tormentata. Per non dire del raptus che animerebbe costoro, attori inconsapevoli di tragedie che, invece, molto hanno a che fare con la premeditazione lucida dell’assassinio. Come dire, un uomo non picchia e/o uccide una donna perché è geloso, disoccupato, in preda ad un’incontrollabile stabilità emotiva. No, chi arriva a tanto lo fa perché la sua cultura lo autorizza a sentirsi padrone delle donne e delle loro vite. La violenza non vuole sentire ragioni, tranne una: la forza ferina di prevaricare sull’altro. Ma lo stereotipo peggiore è quello che accusa la donna di aver favorito la perdita di controllo del partner: «se l’è cercata», si dice. Ma in tal modo non si fa che trasformare la vittima in carnefice, assolvendo l’aguzzino di turno tra omertà e fedeltà a retaggi culturali anacronistici.

Non a caso la sociologa Graziella Priulla definisce «amore criminale» un ossimoro,
«omicidio passionale» una giustificazione e «raptus di follia» una menzogna. Ora se è vero, come è vero, che le parole non si limitano a descrivere la realtà, ma la creano, occorre spezzare il cerchio degli stereotipi per invertire la rotta.

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