Secondo l’Istat, sono 3 milioni e 466 mila in Italia, le donne che nell'arco della propria vita hanno subito stalking, ovvero atti persecutori da parte di qualcuno, il 16% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Di queste, 2 milioni e 151 mila sono le vittime di comportamenti persecutori dell'ex partner.
Dinnanzi a questo quadro allarmante – come attesta il Manifesto di Venezia – varatodalla Commissione pari opportunità della Fnsi in collaborazione con la Cpo Usigrai e GiULiA Giornaliste è necessario riportare al centro del dibattito la questione del linguaggio e di una corretta informazione sull’argomento come chiede la stessa Convenzione di Instanbul. Il termine femminicidio è stato introdotto per la prima volta da Diane Russel nel 1992 – lo stesso anno in cui Augé coniò l’espressione di «non-lieux» –, la quale nel libro Femicide: The Politics of woman killing, attraverso l’utilizzo di questa nuova categoria criminologica, “nomina” la causa principale degli omicidi nei confronti delle donne:una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna». In seguito, la teoria venne ripresa dalle sociologhe e antropologhe messicane – su tutte, Marcela Lagarde – per analizzare i fatti di Ciudad Juarez e venne adottata per descrivere non solo le uccisioni di genere, ma ogni forma di violenza e discriminazione contro la donna «in quanto donna».
Ora, se lo stereotipo è una forma semplificata di descrivere una realtà complessa, il rischio cui espone il sedimentarsi di una tale semplificazione, nello specifico quando viene applicata ai rapporti tra generi, è quello di fissarla in luoghi comuni. Luoghi comuni che, reiterati nel tempo, rischiano di veicolare messaggi falsi e cattive interpretazioni della realtà. È errato, ad esempio, considerare il femminicidio un’emergenza, tutt’al contrario si tratta: a)di un fenomeno strutturale; b) trasversale a culture e società diverse tra loro; c) di un fatto che affonda le sue radici nel rapporto diseguale di potere tra uomini e donne; d) di un qualcosa di prevedibile.
Di qui i luoghi comuni legati al movente, alle attenuanti, al contesto. È quanto mai fallace, ad esempio, ricorrere nella narrazione di simili fenomeni a elementi che riguardano l’amore romantico. Il crimine, anziché essere descritto come l’epifania stessa della violenza, del potere e del possesso, è spesso categorizzato come un atto incontrollato e imprevedibile. Gli assassini visti come uomini mossi da sentimenti di gelosia, di passione tormentata. Per non dire del raptus che animerebbe costoro, attori inconsapevoli di tragedie che, invece, molto hanno a che fare con la premeditazione lucida dell’assassinio. Come dire, un uomo non picchia e/o uccide una donna perché è geloso, disoccupato, in preda ad un’incontrollabile stabilità emotiva. No, chi arriva a tanto lo fa perché la sua cultura lo autorizza a sentirsi padrone delle donne e delle loro vite. La violenza non vuole sentire ragioni, tranne una: la forza ferina di prevaricare sull’altro. Ma lo stereotipo peggiore è quello che accusa la donna di aver favorito la perdita di controllo del partner: «se l’è cercata», si dice. Ma in tal modo non si fa che trasformare la vittima in carnefice, assolvendo l’aguzzino di turno tra omertà e fedeltà a retaggi culturali anacronistici.
Non a caso la sociologa Graziella Priulla definisce «amore criminale» un ossimoro,
«omicidio passionale» una giustificazione e «raptus di follia» una menzogna. Ora se è vero, come è vero, che le parole non si limitano a descrivere la realtà, ma la creano, occorre spezzare il cerchio degli stereotipi per invertire la rotta.