Ad ogni risveglio, «ogni volta che vengo al mondo» dice Nancy, sono immediatamente trascinato in esso da tutte le forze del mio corpo. «Essere nel mondo non è uno spettacolo»: è piuttosto «scontro e mischia», un succedersi di «attrazioni e repulsioni, traversate e spinte, prese e abbandoni, impossessamenti e spossessamenti». È l’«essere gettato» di cui parla Heidegger, una condizione entro cui «esistere significa rimettere continuamente in gioco i proprio abbozzi».
Il progetto dell’esistenza incorpora però anche il suo «mettersi in scena». Ad ogni risveglio, le palpebre si aprono «per lo sguardo possibile e certo di una moltitudine di altri». Il sipario si solleva su una scena, cioè «sullo spazio proprio di una venuta alla presenza». Addossati «all’oscurità di noi stessi», impossibilitati a conoscerci come soggetti gettati nel mondo, diventiamo «presenza» solo attraverso lo sguardo dell’altro.
Il mondo, anzi, è una «disposizione di presenze». Come sul palcoscenico di un teatro, la presenza consiste «nell’esposizione, nella presentazione, nella venuta, nell’approccio e nell’allontanamento». Ogni giorno, a comparire sulla scena del mondo non è un indistinto «Io», «punto sempre incorporeo di qualunque soggetto»: sono gli occhi di questo «Io» ad aprirsi, «e così la sua bocca e le sue orecchie, il suo corpo si estende, si espande, si dispone»; e allo stesso modo «ciò che dell’altro viene, si avvicina e ci tocca è la bocca, la voce, così come sono gli occhi che si avvicinano, il loro sguardo, il loro modo di fissare e di esaminare».
Nancy cita Antonin Artaud, il celebre regista e teorico teatrale del primo ‘900, che considerava il teatro come il «doppio» della realtà «inumana» della Creazione: dal «condensarsi» di una Volontà unitaria e non conflittuale scaturisce l’effettività di un cosmo attraversato da conflitti»; «l’idea del cosmo è l’idea della pluralità e non c’è creazione che non sia innanzitutto distinzione, separazione, spaziamento». La disposizione dei corpi nello spazio e nel tempo ne consente la reciproca esposizione, che costituisce la loro essenza: «Il teatro è già cominciato negli spazi intersiderali oppure nello spaziamento infinitesimale delle particelle».
Ma è con il «corpo parlante» dell’uomo che «questa comparizione delle cose che si chiama cosmo» può diventare dicibile. Attraverso il reciproco guardarsi, ogni parte del corpo permette di accostarsi all’anima: «Le mie mani, le mie gambe, il mio collo, la mia postura, la mia andatura, i miei gesti, ma mia mimica e la mia aria, il timbro della mia voce, tutto quello che si potrebbe chiamare la pragmatica del corpo espone, annuncia, dichiara qualcosa».
Ogni corpo intraprende un dramma; e su questa scena, osserva Nancy, «gli affetti sono soltanto le modulazioni e le trascrizioni della grande tensione primordiale tra i corpi», che «si rapportano gli uni agli altri, non “attraverso” l’incorporeo che li distingue ma come quell’incorporeo stesso».
Solo a teatro, dice il drammaturgo Paul Clodel, «accade veramente qualcosa». Qui, infatti, il testo si fa corpo. Così, nella nostra vita, «un senso può aver luogo solo tra l’uno e l’altro e dall’uno all’altro, può essere sentito solo dall’uno attraverso l’altro». La soggettività, da «macchia cieca» si fa parola corporea, «gioco intensivo della presenza»: «tempo sottratto al corso del tempo, insonnia nella notte che circonda il teatro e nella quale calano, insieme al sipario, attori, scena e spettatori».
Nicola Rocchi - Giornale di Brescia, 22 giugno 2010