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Non si ferma la voglia di filosofia. Grande successo per la XIII edizione del festival nomade "Filosofi lungo l'Oglio. Annunciato il tema della prossima edizione nella parola chiave "Generare"
Grande successo per la XIII edizione del festival Filosofi lungo l’Oglio diretto dalla filosofa Francesca Nodari e promosso dalla Fondazione Filosofi lungo L’Oglio. Circa 25.000 sono state le presenze complessive fra incontri ed eventi cornice nei ben 25 comuni coinvolti lungo il fiume Oglio nelle province di Brescia, Mantova e Cremona.
Continua il festival nomade "filosofi lungo l'Oglio". Nuove tappe a Brescia con Anna Foa, Giuseppina De Simone, Marc Augè, Marco Vannini e Francesco Miano.
Continua il festival nomade Filosofi lungo l’Oglio diretto dalla filosofa Francesca Nodari e promosso dalla Fondazione Filosofi lungo L’Oglio. Tante le nuove tappe in provincia di Brescia della tredicesima edizione del Festival, che ha da poco ricevuto il marchio dell’Anno europeo del patrimonio culturale 2018.
AD ACCOMPAGNARE GLI APPUNTAMENTI LO SPETTACOLO “ARLECCHINO NE SA UNA PIÙ DEL DIAVOLO”
Filosofi lungo l'Oglio. Oltre 2lmila LE presenze all' 11ª edizione
SONCINO - «Santa Maria delle Grazie era stracolma per l'intervento di Marco Vannini dal titolo Senza perché? afferma entusiasta Francesca Nodari, direttrice artistica e ideatrice di Filosofi l'ungo l'Oglio -. A Soncino e alla bellezza di santa Maria delle Grazie non riesco a rinunciare, per quanto da anni non arrivino contributi alla tappa del festival.
Quell'amare «senza perché» poco... amato dalle autorità L'esempio dei mistici nella lezione di Marco Vannini. Oggi Bodei, poi gli ultimi tre incontri
SONCINO. Santa Maria delle Grazie a Sonino, tempio del Rinascimento, cantato dalla scuola dei Campi, circondato da una campagna fresca, l'altra sera, a un chilometro dall'Oglio, ascoltava le parole di un pensatore della mistica medievale, quel Marco Vannini che misticamente si è messo tutto il calore rappreso nella chiesa e l'ha espresso, di tanto in tanto, in un sospiro toscaneggiante, prendendo fiato per l'impegno di una lezione dal titolo dogmatico, «Senza perché»: un titolo con poco ossigeno per avvicinarsi al culmine del concetto di Gratuità.
Marco Vannini - Nobiltà
GRANDEZZA VERSUS GRANDIOSITÀ
In un mondo in cui l’apparire ha preso prepotentemente il sopravvento sull’essere, in una società dominata dal culto dell’immagine e dalla nuda esibizione della grandiosità sembra quasi una provocazione parlare della nobiltà, intesa come magnanimità, ovvero come l’essere degni e capaci di cose grandi.
«Questa parola – scrive Salvatore Natoli – oggi ha perso la sua originaria pregnanza e verità. La si impiega spesso in modo improprio. Quando di una persona si dice che è magnanima per lo più si intende dire che è una persona aperta, concessiva, generosa. Si confonde, così, la magnanimità con la liberalità, abolendo una distinzione che peraltro era ben chiara agli antichi. Per gli antichi la magnanimità era una virtù eminente e, per eccellenza, una virtù esemplare» (1).
L’obiettivo che anima il saggio qui presentato risiede proprio in ciò: dare conto – in un corpo a corpo con Aristotele, Platone, lo stoicismo, Ambrogio, Agostino, Tommaso d’Aquino, Teresa d’Avila, san Giovanni della Croce, Margherita Porete, Meister Eckhart, lo stesso Nietzsche – di un concetto che trova la sua scaturigine nel mondo antico, viene ereditato dal mondo cristiano e torna ancor oggi a farci rifettere sulla sua natura intrinseca come se, in certo senso, ci trovassimo a vestire i panni dell’ingenuo nipote cui il vecchio zio, nei Miserabili di Victor Hugo, ricorda la distinzione tra barone e avvocato e lo esorta a non confondere i piani, gli stili di vita. Se
«nobiltà vuol dire magnanimità, ove borghesia e democrazia vuol dire pusillanimità»(2),
non si potrà non convenire che «la prima ha come oggetto l’onore, la seconda l’utile» (3). Marco Vannini, avvia la sua analisi, richiamando i tratti della ferezza dipinti con grande acume da Aristotele nell’ Etica Nicomachea: avendo di mira l’onore, il magnanimo è un uomo buono, giusto:
«è un estremo per la grandezza, ma è nel giusto mezzo per la correttezza, infatti si stima secondo il suo merito, gli altri invece eccedono e difettano» (4).
Questi, incarnando la ferezza, che è medietà riguardo all’onore e al disonore – «eccesso è detta una certa forma di vanità, difetto è la pusillanimità» (5) – non serba rancore (6), non ama accedere ai posti d’onore, «non parla né di sé né degli altri» (7), non chiede nulla, ma offre il suo aiuto con prontezza (8), non stima grande alcuna cosa (9), non è portato a lamentarsi e preferisce benefcare che essere benefcato (10); non ama il rischio,
«ma affronta grandi rischi, e quando lo fa, non risparmia la vita, convinto che non è da lui il voler vivere ad ogni costo» (11).
E ancora, preoccupandosi «più della verità che della buona fama» (12), è schietto e sincero – non ha peli sulla lingua (13), «non si agita, né è nervoso» (14): il magnanimo è colui che «è grande in ciascuna virtù» (15).
«Per questo è diffcile davvero essere un uomo fero, perché non si può essere tali senza virtù completa» (16).
E di virtù, non a caso, parlavano gli stoici per indicare l’immagine della nobiltà descritta da Aristotele che meglio si precisa come quella ca- pacità di mantenere un certo distacco da ciò che accade: l’imperturbabilità, la compostezza – né troppo gioire né troppo patire dinnanzi a ciò che la fortuna – vox media – ci riserva, ma fare fronte. Vannini, se per un verso, non esita a sottolineare come questa corrente di pensiero abbia infuenzato, sin dagli inizi, il mondo cristiano, per l’altro mostra come sia la mistica «la continuazione vera – l’unica – della flosofa antica» (17).
Di qui le parole chiave che sostanziano due capolavori della mistica medievale quali Lo specchio della anime semplici di Margherita Porete – beghina irregolare secondo i cronisti del suo processo: morì sul rogo a Parigi nel 1310 (18) – e I sermoni del grande predicatore domenicano Meister Eckhart: il nobile amore, il distacco da sé, la «lieta indifferenza alla propria sorte» (19), l’uomo interiore versus l’uomo esteriore, «il fondo dell’anima che è privo di ogni determinazione perché vuoto di ogni volere» (20), dunque il disprezzo verso tutto ciò che vuole permanere. Un fare vuoto di sé che annulla ogni appropriatezza e che manifesta il proprio sdegno nei confronti delle mere opinioni, delle mere convinzioni ossia di tutto ciò che ha a che fare con l’inter-esse. Un esodo o excessus (21) da sé che ci permette
«di riconoscere l’egoismo e la menzogna che è connaturale alla volontà, quasi tutt’uno con essa» (22).
Ma perché l’uomo interiore e nobile divenga homo divinus è necessario che, nella sua beata aghnosìa, sia giusto: distaccato dalla propria egoità e da tutto ciò che gli appartiene. Così ancora ammonisce Eckhart nel sermone 39, Il giusto vivrà in eterno e la sua ricompensa è presso Dio:
«Se vuoi, dunque, vivere e vuoi che vivano le tue opere, devi essere morto e diventato nulla per tutte le cose. È proprio della creatura fare qualcosa da qualcosa, ma è proprio di Dio fare qualcosa da nulla. Se, dunque, Dio deve compiere qualcosa in te o con te, deve prima essere diventato nulla. Perciò scendi nel tuo fondo e opera là: le opere compiute là sono tutte vive. Perciò il sapiente dice: il giusto vive» (25).
Resta, tuttavia, sullo sfondo – come l’autore, nella sua conclusione, fa notare – il grande problema del giusto ostracizzato e il paradosso tra chi vuole apparire giusto senza esserlo e chi «non vuole apparire buono, ma esserlo» (26).
A questi, «tetragono fno alla morte» (27), come Aristide l’ateniese, di cui narra Plutarco, toccherà una sorte meno felice di chi si è fnto giusto con la menzogna. Rischierà la derisione, la persecuzione, forse il palo ma nessuno potrà sottrargli la sua nobiltà (28). Del resto basta guardare la nostra società dei consumi per capire come la grandiosità abbia preso il posto della grandezza. Tuttavia essa non è scomparsa: si dà velandosi. Per usare ancora le parole di Natoli
«sembra che oggi la magnanimità abbia preso l’abito dell’umiltà: agisce nascosta come i trentasei giusti (nistar) della tradizione talmudica, che, in ogni generazione, sono le colonne del mondo» (29).
1. S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 1997, p. 74.
2. Cfr. infra, pp. 18-19.
3. Cfr. infra, p. 19.
4. Aristotele, Etica Nicomachea, IV, 7 1123 b.
5. Ivi, II, 7 1107 b.
6. Ivi, IV, 7 1125 a.
7. Ibidem.
8. Ivi, 1124 b.
9. Ivi, 125 a.
10. Ivi, 1124 b.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Ivi, 1125 a.
15. Ivi, 1123 b.
16. Ivi, 1124 a.
17. Cfr. infra, p. 27.
18. Cfr. G. Fozzer, Lo specchio delle anime semplici, intr. di M. Vannini, Polistampa, Firenze 2001.
19. Cfr. infra, p. 28.
20. Cfr. infra, pp. 32-33.
21. Cfr. M. Vannini, La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Le Lettere, Firenze 2004.
22. Cfr. infra, pp. 38-39.
23. Cfr. infra, pp. 45-46.
24. M. Eckhart, I sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002, p. 391. Sull’argomento, fondamentale il testo di M. Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano 2010.
25. M. Eckhart, I sermoni, cit., p. 320.
26. Platone, Repubblica, II, 361 b-c.
27. Ivi, 361 c-d.
28. Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, IX, «Che cos’è aristocratico?», 268. Scrive Nietzsche: «Gli uomini più simili e più ordinari sono stati e sono sempre in vantaggio, quelli più eletti, più raffnati, più singolari, i più diffcilmente comprensibili, restano facilmente soli, soggiacciono nel loro isolamento, alle sciagure e di rado si trapiantano. Occorre appellarci a immense forze contrarie, per potersi opporre a questo naturale, troppo naturale progressus in simile, la prosecuzione dell’uomo nel simile, nel consueto, nel medio, nel gregario – nel volgare! –».
29. S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, cit., p. 76.
DALLA NOBILTÀ AL PREZZO DELLA DIGNITÀ DOPPIO APPUNTAMENTO PER IL FESTIVAL MARTEDÌ 3 LUGLIO MARCO VANNINI GIOVEDÌ 5 LUGLIO REMO BODEI
Dopo la penetrante lectio magistralis del teologo tedesco Eberhard Schockenhoff incentrata sul concetto di dignità umana legata a doppio filo all’idea di uomo come imago Dei – idea estendibile non solo ai credenti, ma a tutti gli esseri umani – e all’intendimento del soggetto come unità psicofisica ovvero come un esserci corporeo libero e responsabile e insieme vulnerabile, finito e mortale, il calendario del Festival entra nel vivo.
Seconda parte dell’intervista a Marco Vannini - Attualità della mistica
Quali sono le fonti greche della mistica speculativa?
«Il concetto stesso di mistica è greco, pre–cristiano. Scriveva giustamente Simone Weil che il padre della mistica occidentale è Platone, in particolare col suo Convito, ove si descrive il cammino di amore/filosofia che ascende, di grado in grado, dal sensibile all’intelligibile, fino al Bello in sé, che è anche il Bene in sé. È ancora Platone che conia il termine e il concetto stesso di teologia, affermando peraltro che di Dio sappiamo soltanto che è buono e che da lui vengono solo beni – niente altro – e che non dobbiamo pensare tanto di “conoscere” Dio, quanto di “farci simili” a lui (homòiosis tò theò), liberandoci dalle catene della corporeità, distaccandoci da tutto ciò che è illusorio e ascendendo verso la luce, come si può leggere nella Repubblica, nel celebre mito della caverna. Da Aristotele la mistica speculativa ha ripreso il fondamentale concetto di nous poietikòs, intelletto attivo: l’intelligenza pura, “separata”, non dipendente dal condizionamento dell’esperienza, che è eterna, divina, e costituisce l’essenza più vera dell’uomo. Questo è il concetto da cui deriva, attraverso varie mediazioni, il concetto stesso di spirito: non a caso il filosofo e teologo medievale Emerico di Campo potrà dire che “lo Spirito santo è la luce dell’intelletto attivo, che sempre risplende”, ed Eckhart ripete che lo Spirito Santo è dato solo a chi vive nella luce dell’intelletto – che è, appunto, il nous poietikòs aristotelico. Dall’eredità stoica, così profondamente passata nel mondo cristiano antico, la mistica riprende quel concetto di “fondo dell’anima” (Grund der Seele, in tedesco), o di “scintilla dell’anima”, o di apex mentis (tutte espressioni sostanzialmente equivalenti), che è quella parte, per così dire, dell’anima, che non è toccata da determinazioni di alcun genere e che è quella in cui abita Dio, e Dio soltanto. Dagli stoici viene peraltro anche la dottrina dell’amor fati, ossia l’amore per tutto ciò che avviene, visto come manifestazione della impersonale Provvidenza divina, che appare perfetta bontà e bellezza all’uomo distaccato. L’uomo distaccato, di uguale animo in ogni istante, vive così l’istante presente come eterno. Dal neoplatonismo, infine, e da Plotino in particolare, perviene alla mistica speculativa del mondo cristiano tutta la tematica dell’Uno, principio fontale dell’essere, da cui tutto eternamente proviene e tutto ritorna. Basti ricordare che proprio l’espressione stessa “teologia mistica” compare nel breve, omonimo, trattato di Dionigi detto Areopagita – quello sconosciuto autore del V–VI secolo dopo Cristo che i medievali consideravano il maestro della teologia mistica e che è tanto profondamente neoplatonico che alcuni studiosi hanno perfino messo in dubbio che fosse cristiano! Non a caso nel mondo protestante, da Lutero fino ai nostri giorni, la mistica viene guardata con sospetto e ostilità, dato che le si attribuisce un carattere appunto neoplatonico e non biblico–cristiano. Dal neoplatonismo proviene anche il concetto di ineffabilità dell’Uno, e quindi il carattere appunto “mistico” – che significa originariamente riservato, silenzioso, segreto – dell’esperienza dell’Uno: quell’estasi che è prima di tutto un en–stasi, ossia un rientrare in se stessi, nel più profondo dell’anima nostra (ricordiamo ancora una volta l’appello di Agostino: “In te ipsum redi”, rientra in te stesso…)».
mercoledi 13 luglio Marco Vannini a Dello interverrà sulla beatitudine
«L’essere beato e incorruttibile né ha né dà briga, non è partecipe quindi né di grazia né d’ira, cose tutte che hanno luogo in debole natura».
Epicuro, Massime capitali
Dopo l’affollatissima lectio magistralis di Salvatore Natoli che ha saputo catturare l’attenzione di centinaia di spettatori sensibili disposti ad ascoltare il filosofo nonostante l’improvviso maltempo – «un ostacolo della natura» che ha fornito l’occasione per sperimentare una strategia comune di pratica virtuosa, dunque felice – si avvicina il decimo appuntamento del Festival Filosofi lungo l’Oglio.
Se la felicità chiama iniquità, la beatitudine un bene di tutti
Può dirsi contento il sindaco di Dello, Ettore Monaco dell’esordio» del suo paese, per la prima volta toccato dai «Filosofi lungo l’Oglio». L’altra sera in piazza, Marco Vannini ha regalato ad un pubblico numeroso e partecipe una delle riflessioni più intense nella rassegna di incontri curata da Francesca Nodari, quest’anno dedicata alla felicità, e accompagnata dagli «instant book» degli editori Massetti e Rodella che ripropongono i testi di alcune conferenze (è uscito il terzo, dopo Augé e Casper, con la lezione di Remo Bodei). Chiamato a parlare di «beatitudine», Vannini ha negato che la felicità sia l’obiettivo che gli uomini devono perseguire. Perché «felicità e iniquità sono strettamente legate».
Marco Vannini
Marco Vannini è il maggior studioso italiano di mistica speculativa e traduttore, con un infaticabile lavoro ventennale, dell’intera opera, latina e tedesca, di Meister Echkart.