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Martedì, 28 Maggio 2013 03:35

LA SFIDA DELLA RELAZIONE

In linea di continuità con le edizioni precedenti, il Festival propone rifessioni strettamente legate all’esistenza di ciascuno rinvenendo nella problematizzazione della relazione – dimensione costitutiva del rapporto che intercorre tra noi e gli altri – la sfida che il nostro mondo globalizzato pone o, se così si può dire, ripropone all’uomo del XXI secolo. Un mondo ove ad entrare in crisi sono le agenzie educative: la famiglia, la scuola, l’università; le grandi narrazioni della politica, delle ideologie, delle religioni e, da ultimo, e non certo per minor importanza, la crisi della comunità.

Una temperie culturale dove la cifra dominante sembra quella del disorientamento del soggetto in preda, per usare un’espressione kierkegaardiana, a una sempre più impellente «disperazione della possibilità». Lasciato solo dalle scienze – perlopiù permeate da una visione della realtà nei termini di un mero more geometrico – dinnanzi alla domanda cruciale: «che cosa devo fare, come mi devo comportare in questa situazione?»; iperstimolato dai nuovi mezzi di comunicazione ove all’abbattimento delle distanze e all’accelerazione dei trasferimenti corrisponde un ulteriore sfasamento - con internet e i social media si può interagire in tempo reale, anche a distanza di migliaia di km - l’esserci rischia di cadere preda del cosiddetto paradosso della planetarizzazione. E il pedaggio da pagare per percorrere le autostrade informatiche, apparentemente attraenti e comode – in fondo basta sedersi davanti al proprio pc o disporre di un iphone per coltivare l’illusione di comunicare davvero col mondo – si traduce spesso in una pericolosa frantumazione della propria identità tra nicknames e profli immaginari, con un progressivo sconfnamento del reale nel virtuale.

Non si intende certo demonizzare le nuove possibilità del comunicare, ma appunto di possibilità si tratta. Di mezzi e non di fini, di strumenti e non di mondi alternativi a quello in cui ci è dato vivere. Di qui la tentazione sempre più frequente di fuga dalla realtà con il risultato di ottenere l’efetto contrario a quello voluto: la soggettività, pervenendo sartrianamente ad una sorta di autoimprigionamento della propria coscienza, si consegna ad un’icona, ad un’immagine muta che si pone, si espone o addirittura si dà in pasto all’anonimato delle comunità virtuali.

Già qui la relazione è messa prepotentemente in scacco e, quel che è peggio, rischia di sostituire quella reale: chi c’è dietro quell’avatar, da dove viene, qual è la sua storia? Domande che, in molti casi, restano senza risposta o che forse l’homo consumans, immerso com’è nella liquidità odierna, neppure ritiene di porsi teso ad indossare, di volta in volta, maschere che riproducano certi modelli, perpetuino la fnzione, promettano l’euforia a quelle che, ormai, come nota Bauman sono vite di corsa. Vite isolate, deserte ove la minaccia de La morte del prossimo, come avverte Luigi Zoja, sembra palpabile. Di qui l’urgenza di rifettere su noi e gli altri, sulla messa in crisi dell’uomo come animale politico e come esserci parlante, ossia come colui che, per dirla con Natoli, coglie nella trama delle relazioni «un appartenersi e un appartenere a» e, insieme, come colui che presta ascolto a ciò che l’altro dice e che ascolta l’altro mentre questi si rivolge a lui e lo invoca.

Come scrive Bernhard Casper in Dignità e responsabilità. Un rifessione fenomenologica: «Noi siamo uomini per il fatto che parliamo. Questa è un’idea antica. E in contrapposizione a rapporti puramente fsici o biologici, che per loro natura, sono dati e valgono sempre, l’accadimento del linguaggio si mostra come un rapporto che deve aver luogo liberamente tra due uomini che sono l’uno per l’altro, per poterci essere realmente. Non vi è linguaggio che, per dir così, parli da sé, che dunque sia semplicemente presente come le leggi fsiche e biologiche che valgono per la materia e per il vivente. Ma perché il linguaggio umano possa esserci è necessario un uomo mortale, che sia contemporaneamente parlante e ascoltante. Poi è necessario un altro uomo mortale, separato da quello, che sia in grado di ascoltare, ma insieme di parlare egli stesso. Terzo, afnché il linguaggio umano divenga realtà, è necessario un evento libero, cioè non necessario e quindi non anticipabile».

Rifettere sulla relazione è dunque una sfda che richiede, a nostro avviso, una tematizzazione di che cosa si deve intendere oggi per soggetto e per Altro, e dunque per umanità dell’uomo, per libertà, per volontà, per tolleranza, per rispetto, per convivenza civile e pacifca e che necessita, altresì, di essere indagata a partire da prospettive diverse: da quella antropologica a quella etica, da quella fenomenologico-ermeneutica a quella teologica, da quella sociologica a quella politica.

Una sfda, lo ripetiamo, che si deve afrontare senza alcuna possibilità di procrastina- zione e che si aferma anche quando la si nega degradando, ad esempio, il tu ad esso. Di qui il darsi di una fenomenologia della relazione: come nasce? Quali sono le sue condizioni? In quali forme si esplica? E se l’individualismo, l’egoismo, il solipsismo ne decretano lo scacco; la prossimità, l’apertura ad altri - in quanto ne siamo debitori sin dal nascere- non ne favoriscono, al contrario, il suo instaurarsi concreto? Un instaurarsi che rinvia ad un’altra sfda, altrettanto urgente, quella del dialogo, che si declina in ma- niera plurivoca attraversando trasversalmente le sfere del nostre essere in società con gli altri: con i genitori, con i figli, con il partner, con le vecchie e nuove generazioni, con chi ha usi, costumi e abitudini diversi dai nostri, con chi appartiene a un altro credo o, affermando la propria laicità, si apre all’incontro e al confronto con l’altro. Non si sottrae, ma al contrario, si mette in gioco, entra in relazione. Ma quali sono i luoghi del dialogo e in che modo se ne può favorire la pratica nella cosiddetta età del rischio? In che termini, oggi, attraverso il rapporto dialogico si possono “gettare ponti” tra gli uomini nell’ambito personale e comunitario, ma anche in quello della mediazione tra popoli e culture? Interrogativi che stanno alla base di un esistere plurale e condiviso. Parlare oggi di noi e gli altri signifca, insomma, avere il coraggio, come ha mostrato Adriano Fabris nel suo illuminante volume TeorEtica, di portare alla luce ciò che nei luoghi classici del pensare risulta come l’impensato: il concetto di relazione, appunto. E di declinarlo attraverso il coinvolgimento del soggetto nella teoria e nella decisione morale. Ma « il coinvolgimento – spiega Fabris – non dev’essere inteso, semplicemente, riportandolo a una dimensione psicologica – come accade in certe rifessioni elaborate nel contesto dell’etica motivazionale di area anglo-americana –, bensì considerandolo come qualcosa di strutturale: come ciò senza cui, in altre parole, non si dà relazione. La teoria però, anche nelle sue elaborazioni più alte, non è in grado di coinvolgere. Può convincere, può persuadere: ma solo, appunto, su di un piano teorico. La teoria non riesce a motivare all’azione. Anche se so, infatti, che cosa è bene – questo è un tema proprio della tradizione ebraico-cristiana – non è detto poi che non faccia il male. Ma ciò accade non solo perché sono libero di comportarmi in modi diversi da quelli indicati dal sapere. Ciò si verifca, invece, soprattutto perché la teoria risulta davvero impotente sul piano della messa in opera di azioni responsabili.

La teoria – continua il filosofo – può dare il via ad azioni efficaci ed efficienti, basate, più o meno specifcamente, sul principio di causalità. La motivazione della teoria, se mai può essercene una, è il controllo dei processi che essa ha spiegato. E questo controllo è fornito oggi dagli strumenti tecnologici. Ma ciò che manca, qui, è la messa in gioco di una responsabilità più ampia: quella che si assume il compito di realizzare i principî, che magari la teoria ha contribuito a chiarire, all’interno dell’agire quotidiano. Questa responsabilità deriva dal riconoscimento della mia struttura relazionale e dall’assunzione, rifessiva e libera, di tale struttura in ogni occasione del mio agire».

Non solo, intendendo dare una risposta fattiva al difuso senso di indifferenza dinnanzi a tutte le questioni che riguardano le scelte fondamentali della nostra vita, la TeorEtica presuppone un concetto impegnato di teoresi e difusivo di etica. Di qui il ruolo fondamentale giocato da questa fondazione del principio etico della relazione come relazione che è capace di promuovere relazioni. Di qui, ancora, la possibilità stessa per la TeorEtica di costituire un riferimento complessivo per le etiche applicate: in breve, come scrive Fabris, «si tratta di ritrovare su di un piano concreto la presenza del principio etico».

Ora se è vero, come è vero, che solo le relazioni feconde sono relazioni buone, intendendo levinasianamente per fecondità «avere possibilità oltre ogni possibile, al di là di tutto il possibile», ci auguriamo che questo Simposio di Pensiero e di Parole possa costituire un laboratorio in cui la filosofa della relazione venga, davvero, esperita e messa in pratica.

Forse sta in questo la risposta all’inesauribile richiesta di senso, che è il bisogno quanto mai attuale della filosofia.

Francesca Nodari
Direttore scientifco
Festival Filosofi Lungo l’Oglio

Letto 2828 volte Ultima modifica il Venerdì, 19 Luglio 2013 19:31

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